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Il Muro e la formica (di Daniela Marrapese)

In amore, Viaggi on 20 gennaio 2015 at 16:54

formicamuro

Prima di partire avevo paura. Paura di dover assistere a manifestazioni di estrema violenza, timore di potermi trovare davanti a soprusi che non sarei stata in grado di sopportare.
Solo dopo ho capito che avevo peccato di ingenuità. Che, se vai in Palestina, non hai bisogno di essere sfortunato per testimoniare violenza e soprusi. Ti basta andarci e guardare, andarci e ascoltare. Ti basta andarci.
L’abuso, in Cisgiordania, non è episodico e “plateale”. E’ continuo. A volte, silente e reiterato, cerca di farsi “normalità” per passare inosservato, ma non ci riesce.

Lo incontri nelle strade interdette ai palestinesi, nei checkpoint, negli insediamenti che si mangiano la terra, palmo a palmo, nel colore diverso delle targhe delle automobili, nella sottrazione dell’acqua, negli ulivi bruciati, nei muri che separano le persone e nella grate che le ingabbiano. L’abuso è quotidiano, versatile e infaticabile. Quello che avevo sottovalutato, prima di andarci, è che altrettanto o, forse, ancora più versatile e infaticabile, è la resilienza di chi, da troppo tempo, subisce questa violenza.

La resistenza che ho visto, nei miei pochi giorni in Palestina, si serve di strategie costruttive, di strumenti creativi e non violenti; sa usare menti aperte e generose e, spesso, ti guarda con occhi sorridenti. Oppone (anche) la musica alla segregazione [Al Kamandjati]; risponde (anche) con i clowns allo spettro degli assedi [Human Supporters Association, a Nablus]; schiera (anche) contingenti disarmati di persone travestite da Avatar contro frotte di soldati armati [Bili’in]. Perché l’ironia, prima ancora che un’arma, può essere uno scudo corazzato.

Su un tratto del muro che rinchiude il campo profughi di Aida, a Betlemme, qualcuno ha disegnato una formica gigantesca, ritta sulle zampe posteriori che, mentre sembra ruggire, abbatte le sezioni del muro, come fossero tessere arrendevoli di un grande gioco da tavolo. Non si può rimanere indifferenti di fronte a una formica alta 6 metri, e io non l’ho fatto. Anzi, io le ho creduto. Ho creduto all’umiltà di identificarsi in una formica. Ho creduto nel fatto che una formica, se ruggisce, può abbattere un muro.
La formica è un animale dalla grande intelligenza collettiva e con una fortissima propensione alla socialità…tutto il resto, è un muro che cade, tessera dopo tessera, come in un inarrestabile effetto domino.

Inshallah.

Il muro

In Anomalie on 9 novembre 2014 at 13:41

Muro

Era tempo di fare un bilancio. Aveva comperato quell’appartamento perché stava giusto tra il centro e la campagna, un posto splendido, quella che altri chiamavano tristemente suburbe. Il condominio era nuovo ed intonacato di fresco, il tetto di tegole e terrazze, come piaceva a lui. Ovvio che il prezzo era ragionevole e questo era la ragione che l’aveva convinto, certo che però non avrebbe mai immaginato che tutte le finestre che erano rivolte a sud, sui campi verdi e sul boschetto di pini, alla fine sarebbero diventate un problema.
Prima aveva dovuto approvare la costruzione di una rete che divideva la strada e il parcheggio per evitare le scorribande dei vandali che vivevano al di là della recinzione. Gente strana che aveva un’aria bellicosa e sufficientemente pericolosa, tanto da farti desistere dal voler capire chi fossero e cosa volessero.
Poi le grate alle finestre, ma anche questo non bastava, oltre alle grate l’infelice vista del campeggio di tende, capanni e auto sparse disordinatamente nel campo.
Inutile dire che a guardare verso sud si percepiva l’odore della povertà e dell’odio che si andava ad accumulare oltre la rete di separazione.
Ma la rete ogni notte veniva scavalcata o tagliata da quei loschi figuri, che scorrazzavano liberi come cani a lordare il loro giardinetto comune.
Altra assemblea condominiale e decisero per il muro. Un lavoro che sarebbe costato di più, ma almeno avrebbe eliminato le quotidiane riparazioni della rete. E muro fu. Poi fu la volta delle finestre che davano sui terreni incolti, certo le più luminose, ma le più pericolose. Erano diventate oggetto del tiro della spazzatura di quella marmaglia incivile. e pure quelle furono orbate.
Il suo appartamento divenne più buio, ma almeno si risparmiava di vedere il nemico appostato troppo vicino per poterlo dimenticare. Ero certo che quelli non fossero essere umani. Lo si vedeva dal colore della pelle, dai peli sul corpo, dagli stracci colorati che usavano per coprirsi, ma anche dai versi che emettevano, tanto animali da non potersi comprendere.
E il muro fu costruito alto, quanto il condominio e seppur avesse levato luce agli appartamenti, al parcheggio e al giardinetto comune, li faceva sentire più sicuri, più potenti e più uniti, tutti contro quel nemico comune, e ora invisibile, che li voleva contagiare con la sua povertà e quei comportamenti inutilmente rozzi e sprezzanti.
Quel muro era lo scudo dalla barbarie ed era giunta voce che tanti altri condomini avessero deciso di unire in una cinta tutti i muri condominiali della città.
Ora si che si poteva ragionare. La loro civiltà era protetta da un muro invalicabile. Qui avrebbero potuto, parlare con la loro lingua, mangiare i loro cibi, educare i loro figli nelle loro tradizioni, andare nella loro chiesa, pregare le loro preghiere, ascoltare la loro musica, un’unica squadra del cuore, mantenere l’ordine e la pulizia, senza paura che qualcuno mettesse in discussione le loro magnifiche certezze.
Una tribù di brava gente, che sa di essere nel giusto, che si dota di un esercito per tenere lontano gli intrusi, soldati molto forti e combattivi che garantiscono la vita dei cittadini. Perché loro dei condomini sapevano di aver diritto di vivere bene senza aver paura di quelli che  rubavano loro la casa e anche il lavoro, le loro donne e i loro bambini. “Noi abbiamo diritto a vivere in pace!” Così dicevano e così si comportavano.
Ma la gente era triste, arrabbiata, era stufa di ascoltare la stessa musica, di star a parlare solo con il vicino rincoglionito, di guardare la tv di predicatori da strapazzo, di non andare allo stadio, di non conoscere gente nuova, ma l’esercito presidiava il muro condominiale e le regole era queste: non uscire, non mischiarsi, non rischiare. Se a qualcuno non andava bene, il regolamento diceva: cacciare l’intruso. Ed era una cosa che dava il nervoso.
La sua tribù era noiosa e deprimente, ma non lo diceva mai ad alta voce, nessuno avrebbe capito e rischiava di essere escluso solo per la voglia di evadere un po’ dalla routine quotidiana.
Era rimasto solo il buco da cui spiava i campi verdi e dal quale respirava l’aria dei vicini.
E prima o dopo anche quel campo sarebbe diventato proprietà condominiale e gli invasori sarebbe stati schiacciati come vermi. D’altra parte dio era dalla loro, e nessuno avrebbe trovato, come sempre, nulla da eccepire.

I tempi stanno cambiando??? Tu lo sai che io so che non è vero.

In Giovani, La leggerezza della gioventù, musica, personale, poesia, politica on 31 marzo 2013 at 14:06

notwar

The Times They Are A Changin’ (1964) – Bob Dylan

Venite intorno gente
Dovunque voi vagate
Ed ammettete che le acque
Attorno a voi stanno crescendo
Ed accettate che presto
Sarete inzuppati fino all’osso.
E se il tempo per voi
Rappresenta qualcosa
Fareste meglio ad incominciare a nuotare
O affonderete come pietre
Perché i tempi stanno cambiando.

Venite scrittori e critici
Che profetizzate con le vostre penne
E tenete gli occhi ben aperti
L’occasione non tornerà
E non parlate troppo presto
Perché la ruota sta ancora girando
E non c’è nessuno che può dire
Chi sarà scelto.
Perché il perdente adesso
Sarà il vincente di domani
Perché i tempi stanno cambiando.

Venite senatori, membri del congresso
Per favore date importanza alla chiamata
E non rimanete sulla porta
Non bloccate l’atrio
Perché quello che si ferirà
Sarà colui che ha cercato di impedire l’entrata
C’è una battaglia fuori
E sta infuriando.
Presto scuoterà le vostre finestre
E farà tremare i vostri muri
Perché i tempi stanno cambiando.

Venite madri e padri
Da ogni parte del Paese
E non criticate
Quello che non potete capire
I vostri figli e le vostre figlie
Sono al dì la dei vostri comandi
La vostra vecchia strada
Sta rapidamente invecchiando.
Per favore andate via dalla nuova
Se non potete dare una mano
Perché i tempi stanno cambiando.

La linea è tracciata
La maledizione è lanciata
Il più lento adesso
Sarà il più veloce poi
Ed il presente adesso
Sarà il passato poi
L’ordine sta rapidamente
Scomparendo.
Ed il primo ora
Sarà l’ultimo poi
Perché i tempi stanno cambiando.

La partenza

In Anomalie, Viaggi on 26 dicembre 2012 at 10:19

aereo

Cosa c’era che non andava in quella partenza?
Innanzi tutto non andava che a tutti quelli che lei lo aveva detto gli avessero fatto, più o meno, la stessa sollecitazione: “Mi raccomando… stai attenta…” ma a cosa doveva prestare così tanta attenzione? Un viaggio è un viaggio e il luogo non è neppure tanto lontano… eppure…
L’avevano preavvisata di non farsi intimidire dalle eventuali perquisizioni, anche corporali, dalle domande che tendevano di farti ammettere cose che non intendevi commettere, e poi di non dire i luoghi che intendevi visitare, sostituendoli con quelli che tutti volevano tu pensassi visitare.
Sembra che lì, alcuni luoghi, avessero nomi impronunciabili, e un’esistenza negata… un po’ come dire una parolaccia in chiesa, oppure come pronunciare una formula magica che trasformava la realtà in incubo.
E tutto questo solo per poter andare a visitare dei luoghi che tutti sapevano esistere, ma che si rifiutavano di ammetterlo, solo perchè la loro esistenza avrebbe denunciato anche la loro occupazione abusiva e illegale e soprattutto armata.
Ecco la cosa sconvolgente: fare attenzione a dei ragazzini appena usciti dai licei che venivano armati e messi a controllare le strade, gli aereoporti e i posti di controllo.
Ecco, quello che la preoccupava di più era quella sensazione che si stava impossessando della sua anima: una strana e serpeggiante paura in aggiunta alla sensazione di perdere la propria libertà e dignità. Strano però.
Era infastidita dal fatto che quando sarebbe arrivata lì avrebbe smesso di essere una persona libera di avere una propria idea e di fare una propria scelta e sarebbe stata in balia di un controllo imposto attraverso un esercito di ragazzini spaventati dalla sua valigia riempita da pennarelli e peluche, davvero difficili da spiegare.
Si immaginava il dialogo surreale: “Per chi porta questi giocattoli?” “Per i bambini!” “I nostri bambini non hanno bisogno di questi giocattoli!” “Lo so, ma sono gli altri che invece ne hanno bisogno!”
Ecco gli “altri”, i diversi, i cancellati, quelli che non hanno una terra che porti un nome, quelli che non hanno il diritto di tornare alla loro casa, quelli che hanno i figli che abbisognavano di giocattoli, quelli il cui nome non era possibile pronunciare e che erano il soggetto della guida turistica che avrebbe nascosto in quella spaventosa valigia che forse non sarebbe passata indenne ai controlli.
Era strano anche il fatto che partiva con il numero di telefono dell’Ambasciata in tasca, che avrebbe potuto servire per portarla in salvo, almeno c’era qualcuno che avrebbe potuto garantire per lei… forse…
Ci pensava mestamente quella mattina, qualche ora prima della partenza e si andava convincendo, da sola, raccontandosi che non poteva essere, che tutte le storie che alcuni suoi connazionali le avevano raccontato avrebbero potuto essere delle invenzioni, in fin dei conti lei era una persona seria, ben intenzionata, portava nel cuore un messaggio di pace, e allora perchè avrebbe dovuto avere paura? Perchè mai l’avrebbero potuta fermare, interrogare, intimorire e alla fine rimandare indietro?
Ma il suo disagio persisteva. Era certa che non sarebbe stata capace di sostenere le domande senza alla fine dire la verità e la sua reale destinazione e questo l’avrebbe fregata senza dubbio, perchè non era capace di sottostare a una costrizione, ad una assurda imposizione di facciata che offendeva la sua intelligenza e la sua libertà. Eppure lei ufficialmente stava partendo con una destinazione assolutamente normale, ma quello  che era strano però era la destinazione del suo viaggio: “paese civile e pacifico e soprattutto unica democrazia del Medioriente”.

La “Grande Acqua”

In Le Giornate della Memoria, personale, Venezia on 1 novembre 2012 at 8:42

Che notte stanotte. C’è chi non se la ricorda, quell’altra volta, ma io la ricordo bene e ne provo ancora un forte disagio, forse paura, non so.
Era il 1966, e la notte era stata simile a questa notte, era il 4 novembre e ora è il 1 novembre, solito periodo, perché è proprio di questo mese le sfuriate di scirocco e qui l’acqua monta quando tira scirocco e la marea non se ne va, resta in laguna, la differenza è poca tra il massimo e il minimo e poi la marea rimonta e allora…
C’era l’acqua alta al mattino, abbastanza alta, da bloccare la città. Mio padre era uscito presto con gli stivali alti fino alle cosce, era partito presto perchè si sapeva che, quel giorno, l’acqua non avrebbe perdonato. Doveva andare al negozio a sollevare dal magazzino tutto quello che stava negli scaffali più bassi, un lavoraccio infernale: le stecche di sigarette, la cancelleria, i detersivi, tutto da alzare di un piano almeno, sperando che bastasse, ma alla fine non bastò.
L’acqua era alta davvero e la gente affacciata alle finestre guardava, in giù, la strada allagata, e i negozianti al lavoro per tentare di salvare qualche cosa. Il nostro cortile sotto casa, malgrado fosse più alto di un gradino, era già pieno e l’acqua lambiva il primo gradino di casa. Però la gente alle finestre l’aveva presa a ridere, tanto si sa, noi veneziani con l’acqua ci conviviamo bene, non ci fa paura, sale e scende come la fortuna nella vita, basta saperla prendere e lasciarla andare quando va, tutto qua.
Ad un certo punto, non so a chi venne in mente che proprio sulla strada, vicino al canale ci stava una casetta che al piano terra, ospitava due vecchietti, e lì l’acqua entrava anche con le maree meno preoccupanti. Il mio vicino, un signore piuttosto prestante, era partito con i suoi stivali da pescatore e aveva bussato alla porta. I vecchietti avevano gridato che stavano bene e che per il momento stavano riparati sopra il tavolo di cucina ad aspettare che l’acqua defluisse… Il vicino se ne tornò rincuorato, d’altra parte non era la prima volta.
A casa mia, a parte il pensiero per mio padre, le preoccupazioni erano minime, stavamo all’ultimo piano e non c’era davvero di che preoccuparsi. Però mio fratello più grande si era svegliato con un forte febbrone, e una guancia gonfia segno che aveva un ascesso al dente davvero considerevole, e si lagnava del male come fosse sulla graticola. A quel tempo gli antibiotici non si tenevano in casa in previsioni di catastrofi e ad uscire per andare in farmacia non se ne parlava proprio, troppo lontana e poi nella strada più bassa della zona. Non ci restava che aspettare che la marea si ritirasse, ma non fu così. La sessa aveva cominciato timidamente a scendere quando un nuovo attacco dello scirocco l’aveva mantenuta a quel livello fino al momento della sessa successiva e a quel punto l’acqua rimontò, veloce e aggressiva come noi sapevamo essere quando il mare s’incazzava.
Dalla radiolina di casa arrivavano le notizie: Firenze era sotto con l’Arno che era straripato e stava imperversando per le strade della città provocando morte e distruzione. E noi invece avevamo l’acqua che cresceva e cresceva sembrava non finire più. Adesso in cortile l’acqua lambiva il secondo gradino di casa. Avevano tolto la luce, il gas e il telefono e la città andava alla deriva.
Il vicino ormai con gli stivali alti fino alle ascelle, era ripassato alla porta dei vecchietti che si erano rifugiati sopra l’armadio. Ormai l’acqua aveva invaso tutta la casa e aveva superato il tavolo in cucina. Ma come aprire la porta? Il vicino si era portato un po’ di arnesi e aveva scassinato il portoncino, per fortuna non troppo sicuro e aveva portato in salvo i due sfortunati. Ma cosa ne era della mia amica Marinella che stava pure lei in balia dell’acqua? E ora c’erano le 4 famiglie del primo piano di casa nostra, per il momento l’acqua era in casa, per qualche centimetro. Né luce in casa e nemmeno per le strade e al buio l’acqua faceva ancora più paura. Non funzionava il telefono e mio papà non tornava e nemmeno il dottore per gli antibiotici si poteva chiamare per quel maledetto dente di mio fratello. Allora mi era venuta un’idea, il dottore abitava nell’edificio di fronte, abbastanza distante, ma a tiro di voce, l’avevo chiamato gridando dalla finestra e si era affacciato e, dopo aver saputo il problema, si era detto disponibile a calare il cestino dalla finestra per fornirci l’antibiotico. Allora, per fortuna, ero una ragazza alta e agile, mi misi gli stivali alti, quelli che arrivavano alle ascelle e scesi in strada per raggiungere la casa del medico. E’ terribile trovarsi in mezzo all’acqua, al buio con detriti di tutti i tipi ed animali morti a galleggiare e anche qualche topo vivo alla ricerca di un posto dove rifugiarsi, perchè i topi nuotano, e pure bene, e in quella traversata non ero sola. Presi le medicine e tornai a casa da vera eroina, ma dentro mi era rimasta quella sensazione di sventura e abbandono che si prova quando puoi trovarti immersa nell’acqua, senza punti di riferimento e senza sapere se tutto questo sarebbe finito, ogni passo la sensazione che l’acqua poteva superare la tuta degli stivali e allora mi sarei trovata ancorata sul fondo della strada e non mi sarebbe rimasta che la possibilità di uscire dagli stivali e mettermi a nuotare. Ore 18,30 +194 cm. dal livello del mare il che voleva dire tutta la città allagata e chi stava ai piani terra era scappato come un profugo ai piani superiori; e i negozianti? Mio padre? Ormai c’era poco speranza per la merce del negozio, ma lui dove stava?
E si stava lì tutti seduti, sui gradini della scala di casa, a guardare l’acqua alla luce tremolante delle candele e con il terrore che anche la terza marea sarebbe montata sulle prime due. Allora la città era persa davvero, per la prima volta nella sua lunga vita vissuta nel mare, sarebbe andata sotto definitivamente. Allora si calcolava: come fa una marea salire sull’altra? Ed è possibile che non scenda? Non scenda più? Un rumore sulla porta e mio padre si affaccia: “Sono tornato!” Accidenti come ha fatto? Stava su una barchetta che andava alla deriva e lui ci era salito e spingendosi sui muri era riuscito ad arrivare a casa. Idea geniale, ma chi conosce la città sa che non era stato facile, certo aveva preso in barca la strada, ma c’erano dei punti in cui dovevi prendere per i canali bui e ritrovare la strada perché i ponti non ti consentivano di continuare. E l’acqua stava lì, minacciosa e nello stesso tempo amichevole, e noi stavamo a guardare ossessivamento il suo livello sul muro…
Dalla radiolina arrivavano le notizie di Firenze… a noi sembrava di essere fortunati, almeno l’acqua ci invadeva senza spazzarci via, ma comunque l’acqua non scendeva. Dalle case dei piani superiori arrivava da mangiare, per tutti quelli che stavano sulle scale. Quello che c’era a disposizione, un po’ di salame e un bicchiere di vino, tanto per scaldare gli animi e pure i corpi, infreddoliti da una giornata a bagno.
Poi un urlo: “Cala, sta calando!!!!!” Ed era vero, l’acqua si ritirava, lo si vedeva dal segno sul muro, scendeva lentamente ma scendeva… avevamo buttato un pezzo di carta e si vedeva che lentamente prendeva la strada della porta d’uscita.
Forse il vento era cambiato, forse si era calmato ed il mare stava ritrovando la strada. Non sapevamo ancora che quel mare incazzato aveva superato le difese a mare sul litorale. Aveva superato ed allagato il Lido ed era entrato con tutta la forza in laguna. Ora ritirandosi portava con sè tutto il suo carico di sporco, oggetti abbandonati e paura, lasciando una città che sembrava una discarica di cose da buttare, ma comunque viva, comunque pronta a ripartire.
E stanotte è così una marea di +140 cm sul livello del mare, una breve discesa e poi fra poco una nuova risalita… e tira vento e c’è la stessa pioggia uggiosa… speriamo davvero di non dover  raccontare di una grande acqua un’altra volta ancora.

Storie d’amore e di corazze

In amore, Donne, Ironia, Parola di donne, Senza Categoria, uomini on 1 agosto 2012 at 20:26

La prima storia.
Lei è bella. Magari non bella nel senso classico, una bella dentro e fuori nel senso più spirituale del termine. E poi la bellezza non vuol dire niente, c’è chi la vede e chi no. Lui, l’altro, l’aveva vista e non ci aveva più dormito per mesi.
Ma andiamo con ordine.
Lei era da tempo che si era accorta di aver sposato un pesce surgelato. Il suo più caro amico l’aveva avvisata: “Se lo sposi ti vengo a prendere a calci in culo.” E adesso sapeva quanto avesse avuto ragione, ma lui non era più lì, anzi non era proprio più. Maledizione!
E poi era stata tutta colpa di quell’amico… ma andiamo per gradi.
Lei aveva allora deciso di adeguarsi, si era indossata una corazza spessa e si era infilata nel surgelatore, almeno così non c’era pericolo, nessuno l’avrebbe notata e avrebbe preteso da lei alcunchè.
Aveva scritto all’amico che ora lei viveva bene, stava bene con se stessa, che nessuno l’avrebbe ferita e che pure col marito c’era un giusto equilibrio, tutti e due freddi uguale.
Il suo amico lontano le aveva risposto: “Sei ancora più pazza di quello che pensavo” e l’aveva minacciata un’altra volta, ma poi non era più tornato. Oh quanto le mancava!
Ma almeno una cosa l’aveva fatta. un piccolo attentato alla sua corazza e al suo gelo personale, le aveva dato l’incarico di far avere certi documenti ad un amico che abitava in un’altra città. Cosa banale se si guarda bene, ma a volte sono proprio quelle che ti fregano.
Lei c’era andata, bene armata della sua corazza, e con quella giusta temperatura che non le avrebbe consentito una vera e propria comunicazione. Lui, l’altro, le aveva parlato a lungo, aveva chiesto, era rimasto a lungo in silenzio, aveva ascoltato… Insomma, ecchecavolo, le solite cose in fin dei conti. tutti ne sono capaci… Eppure il suo silenzio parlava e le sue parole accarezzavano… niente da fare, però,  la sua corazza gelata resisteva. E poi i suoi occhi scuri a volte seri e a volte ridenti, la sua volontà di sapere, di conoscere…
Lei aveva messo km di distanza e pure il telefono di mezzo, non aveva tempo per queste cose, aveva troppo da fare.
E a casa apriva il frigorifero estraendo verdure colorate e piene di sapore, tagluzzava, condiva, salava, insaporiva con spezie speciali e suo marito la guardava senza il coraggio di fermare la sua frenesia.
Le amiche beneficiavano di tanto ben di dio, e anche qualche amico aveva ripreso a passare all’ora di cena e si riempiva gli occhi e il cuore di quei profumi e sapori.
Lei cucinava con puntiglio e rabbia. Peperoncino e curcuma e qualche erbetta speciale che nessuno usava più e che il nome aveva dimenticato.
Sarà stato quello a scioglierle il cuore: il calore dei fornelli e il pizzicore del pepe in grani grandi e neri. Sarà stato il telefono oppure quelle parole sussurrate tra un intingolo e un cous cous.
Un giorno il frigo fu vuoto e pure il suo cuore. Si chiese cosa avrebbe fatto ora che si sentiva così… così inutile e senza nulla da fare. Cosa avrebbe dovuto ancora aspettare?
Prese allora quell’aereo e aveva il cuore che faceva capriole e che suonava l’ultima samba che aveva sentito alla radio. Lui l’aspettava e la prese semplicemente per mano e un altro aereo li portò via, lontano, con la speranza di non più tornare.
Che ne fu di loro? La storia non lo dice, so soltanto che quell’amico che li guardava ridendo sornione, da un luogo, quello sì senza ritorno, aveva detto alzando in alto il pugno, in segno di vittoria: “Te l’avevo promesso, amica mia, che sarei tornato per darti un calcio in culo…”

Un anno e niente più

In Amici, Anomalie, Guerra, Informazione, Le Giornate della Memoria, musica, Nuove e vecchie Resistenze, personale, Pietas, poesia, uomini on 4 aprile 2012 at 23:27

E’ tutto oggi che ci penso: è mai possibile che ci siano sistemi che tremino di più di fronte alla poesia che alle bombe?
Si chiamava Juliano Mer-Khamis era al 100% israeliano e al 100% palestinese. Quello che significava questa frase era che, dal padre palestinese, aveva ereditato tutta la poesia dell’uomo di pensiero e dalla madre israeliana, la grande perseveranza della donna di azione.
Lui aveva scelto di stare dalla parte dei bambini palestinesi, come l’aveva scelto la sua coraggiosa madre Arna l’israeliana. Il teatro era stata un’idea della madre lo aveva voluto a Jenin, un campo profughi nato dall’esodo forzato della Nakba.
Perché spaventasse alcuni “poteri forti” un registra-attore, che aveva fondato il suo teatro a Jenin e che l’aveva chiamato, chissà perché, Freedom Theatre, insegnando ai ragazzini a diventare qualcun, mettendoci la faccia, non si riesce a capire.
Tanto che hanno distrutto il suo teatro e lui l’ha ricostruito, hanno arrestato i suoi aiutanti e lui ha continuato l’attività e alla fine comunque l’hanno ucciso.
Ma il Teatro continua e i suoi bambini continuano a calcare le scene, qualche volta sbagliano le battute e altre volte lasciano la scena, perché così hanno scelto o qualcun altro ha scelto per loro. Chi può dire se è davvero un errore? Chi può negare loro il diritto di resistere?
Dedico anch’io, dal mio modesto blog, un piccolo tributo alla coerenza e al coraggio. Arrivederci Juliano… è da un anno che un’altra stella splendente sta nel cielo dei grandi.

Se questa è l’Italia…

In Amici, Anomalie, Antifascismo, Cultura, Donne, Giovani, Gruppo di discussione politica., Informazione, Ironia, Mala tempora currunt, Nuove e vecchie Resistenze, politica on 16 dicembre 2011 at 19:55

Le persone che mi conoscono da tempo sanno già di questa “storiella”.
Sento da più parti vocine ingenue (o ingenuamente false) ribadire che gli omicidi di Firenze siano stati gli atti finali di una mente malata.
IO FREMO DI RABBIA A SENTIRE QUESTE SCUSE ASSURDE. Io sono convinta che l’assassino di Firenze sia stato un nazi-fascista razzista e convinto del suo razzismo. Io credo che il razzismo abbia spinto la sedicenne di Torino a incolpare ingiustamente due immaginari ragazzi rom (perchè non ha immaginato due ragazzi torinesi?); il razzismo ha spinto un gruppo di persone, sempre di Torino, a reagire al finto stupro con un POGROM contro i rom del quartiere.
Il razzismo è anche la scelta del poliziotto romano che, fingendosi straniero, sequestra l’amico del figlio per chiedere un riscatto e pagarsi i debiti da gioco. Il razzismo anima i talk show, siede nei salotti televisivi dove, subito dopo gravi fatti di cronaca, si grida e si lascia gridare che “FORSE” l’assassino è straniero (ci sono casi irrisolti in cui all’inizio hanno seguito la pista dell’immigrato). Ci sono italiani ben pensanti che si ricordano dei delitti e degli stupri commessi da stranieri, ma non ricordano mai di citare le statistiche secondo le quali sono gli italiani a commettere più omicidi e stupri.
Poi c’è questa “storiella” che mi riguarda tanto da vicino. Nel nvoembre 2007 Obama si candidava per la casa Bianca col suo nome arabo, “BARAK”. Nello stesso mese mia figlia, con nome e cognome arabo (palestinese), si recò nel liceo-ginnasio che aveva scelto di frequentare l’anno successivo. Dopo la terza media si sarebbe iscritta in quel liceo! A novembre gli studenti delle terze medie vennero invitati per le giornate di orientamento. Mia figlia si recò insieme ad altri compagni della sua scuola. Avevo chiesto al docente, referente di orientamento, di inserire mia figlia in classe per farle vivere qualche momento al ginnasio. Quando fu in classe, mia figlia si presentò e a quel punto si sentì dire dalla professoressa: ” Ecco un’altra straniera al classico! Ma perchè si ostinano a venire al classico gli stranieri?”. Shaden rimase lì a guardarla. Non parlò e non rispose. Non le disse che lei di “strano” aveva solo il nome e il cognome e non era straniera. Ma anche se fosse stata straniera, quella prof non doveva parlare in quel modo! Disgustata da quell’esperienza, mia figlia è ritornata in quella scuola solo per dire “qualcosina” alla prof. Io ho provveduto a contattare il docente referente del progetto Accoglienza (bell’accoglienza), ho scritto al Preside (poichè non ha “avuto il tempo” di ricevermi) e nella lettera gli ricordavo che in quei giorni un nero americano (vabbè poi sappiamo che di nero ha solo la coscienza, come afferma l’amico Francesco Giordano :-)) correva alle presidenziali per la Casa Bianca con un nome arabo, mentre mia figlia, con un nome arabo, era stata “consigliata” di non frequentare il suo liceo, ritenuto un corso di studi troppo difficile per gli “stranieri”. Oggi Shaden frequenta un altro liceo con altri studenti dal cognome “straniero” :-).
Questo è accaduto un po’ prima che i leghisti vincessero le elezioni nel 2008.
Un leghista doc come Tosi è stato assessore alla sanità per il Veneto qualche anno fa. Tra le prime direttive impartì l’ordine che gli ospedali veneti non dovevano erogare in pronto soccorso tutta una serie di servizi sanitari, soprattutto agli stranieri (radiografie, eco..) perchè, secondo lui, era un modo per non pagare il ticket ..Sta di fatto che in quel periodo (2006) se capitavi in un pronto soccorso ed eri straniero, ci rimanevi ore e ore.
Ho depositato il libretto sanitario di mia figlia undicenne al desk del pronto soccorso, dove ci eravamo recate perchè lei sie era rotta la tibia. Ho aspettato 7 ore prima che qualcuno la visitasse. E l’hanno visitata quando io sono scoppiata in un moto di rabbia, quando mi sono accorta che al desk l’avevano scambiata per straniera…c’erano due pile di libretti. Noi eravamo in attesa da ore insieme a chi stava peggio di mia figlia..eravamo tutti stranieri….tutti la stessa pila.
Da denuncia, vero? Io ho fatto una scenata, accusandoli di razzismo.
QUESTO E’ UN PAESE RAZZISTA, PERCHE’ E’ UN PAESE IGNORANTE! Ancora oggi, dopo 30 anni quasi, se dico che sono sposata ad un arabo pensano sempre sia un marocchino. Non sanno nemmeno che l’inquilino polacco parla il polacco e non il rumeno….QUESTO E’ UN PAESE CHE NON SA DISTINGUERE MA SI SPRECA NELLE CLASSIFICAZIONI! E’ una brutta fotografia dell’Italia. Ma se non la guardiamo bene rischiamo di lasciarla così…senza nemmeno tentare di ritoccarla nel reale.
Pina

Questo è uno sfogo in Facebook di una mia cara amica, simpatica e molto coraggiosa. Proprio ieri le dicevo che mi sarebbe piaciuto raccontare o meglio scrivere la storia della sua vita e davvero ci sarebbe molto da scrivere. Spero di convincerla, un giorno, e di poter raccogliere tutte le sue memorie, che allo stato attuale sono moltissime, anche se lei è ancora molto giovane. Un giorno raccontò che …, ma no, dai, questa è troppo bella, ve la racconto un’altra volta 😉

I ladri di sogni

In Amici, amore, Anomalie, Donne, Giovani, Nuove e vecchie Resistenze, personale, politica, Scissione, Sinistra e dintorni on 16 ottobre 2011 at 14:12

Siamo tornati questa notte da Roma, Delusi ed arrabbiati, molto di più di quando ieri mattina siamo arrivati a Roma.
Ci siamo alzati prestissimo per prendere il treno con le offerte del sabato. Sia chiaro che oggi si fa fatica anche a viaggiare in treno, non è un mezzo per chi fa  i conti per arrivate a fine mese e siamo in tanti a fare questi benedetti conti.
In treno ci sono le mamme, mi chiederete quali mamme e che c’entrano. C’entrano, sono le mamme dei ragazzi e ragazze, studenti medi che sono partiti a notte fonda verso Roma, perché anche di questo è fatta questa manifestazione. Io e Mario avevamo mio figlio con gli studenti che venivano da Firenze e la ragazzina di 17 anni, Shaden, che la mamma, impossibilitata a venire, ci aveva affidato, anche lei era partita da Venezia con quei pullman che sono la tradotta di queste manifestazioni. Autobus che solo i giovani possono affrontare. Io ci lascerei le gambe prima ancora di arrivare.
Si arriva in una Roma assolata e allegra. Arriviamo presto e già la Piazza è colorata e piena di allegro vocio. Noi abbiamo appuntamento alle 13 o 13,30 davanti al cinema Moderno, ma ci arriviamo abbastanza presto dopo aver telefonato e fatto raccolta di amici romani e non. Qualcuno di loro deve andare in testa del corteo perchè sono quelli del Comitato 15 ottobre, c’è tanta allegria, la gente non sembra molta però, ma a noi non importa, chi c’è c’è, e anche gli studenti devono arrivare dopo essersi raccolti davanti alla Sapienza.
Chiamo mio figlio: tutto bene, stanno riunendosi per partire verso Termini. I gruppi della Palestina non si vedono. Noi indossiamo le bandiere per fare richiamo. Arrrivano ragazzi da Milano e alcuni giovani romani e un’altra ragazza da Venezia che è partita più tardi.
Siamo allegri e ottimisti, dietro ai nostri sorrisi però ci sono dei dubbi e delle tensioni (oppure pare solo a me). Non ci possiamo credere. Avevamo visti i mezzi dei carabinieri, in un angolo della piazza, e c’era qualcosa di strano: vicino ad una camionetta c’erano carabinieri con dei personaggi che carabinieri non sembravano proprio. Alcuni seduti dentro, altri che rilassati parlavano all’esterno. Fra di noi non abbiamo esternato quello che ci era venuto in mente. Eppure anche Mario aveva annotato la cosa. Non si può immaginare che, se ci fosse stato qualcosa di dubbio, lo facessero così alla luce del sole. Erano i miei retaggi da sessantottina a parlare, sicuramente. Insomma carabinieri e dimostranti dall’aspetto poco rassicurante, insieme in un guazzabuglio a dir poco sconcertante. Ma tiriamo avanti.
Mi son detta: ma cosa vai a pensare, se fossero infiltrati, perché mostrarsi alla luce del sole, sono troppo pochi, verrebbero isolati, ma che diamine. Forse mi sono sbagliata o forse il pericolo non veniva da lì, non ne sono sicura  e non lo sarò probabilmente mai.
Raccogliamo altri con la bandiera palestinese e con quelle della Flotilla, ma il furgone non arriva, poi mi chiamano al cellulare: venite a Termini che il gruppo parte da lì, il furgone è rimasto imbottigliato. Andiamo raccogliendo un po’ di persone per strada. Fortunatamente il nostro gruppo è riconoscibile per le bandiere e ci si ricompatta a Termini. Ci abbracciamo e riconosciamo i nostri amici di Facebook. E’ bello trovarsi e riconoscersi, è rassicurante. Intanto gli studenti sono arrivati alla stazione e mio figlio riconoscendo le bandiere mi raggiunge. Ci abbracciamo e siamo ottimisti e contenti. Sarà una grande manifestazione.
Quelli del Comitato sono già partiti da un po’. Ci chiamano per sapere di noi della Palestina, dove siamo. Io rispondo che non siamo ancora partiti anche se dovevamo partire in quinta posizione. Quelli ci dicono che sono ad una decina di minuti da Piazza S. Giovanni. Ma allora chi c’è dientro di loro se noi non siamo ancora partiti? Non riusciamo ancora a pensare che il corteo possa essere così lungo e numeroso.
Partiamo e si va lenti, ma è bellissimo, ci sono famiglie con bambini in carrozzina, c’è musica e allegria, qualche slogan, tanti sorrisi.
A metà Via Cavour mi arriva la telefonata di quelli del Comitato e dicono che gli studenti di termini sono bloccati da Black Blocs che stanno provocando disordini. Chiamo mio figlio, che dice: no, qui tutto tranquillo, siamo tantissimi ed aspettiamo di confluire nel corteo. La cosa mi rasserena. Richiamo quelli del Comitato che sono già entrati a S. Giovanni. Si tranquillizzano pure loro. Ma ad un tratto noi cominciamo a vedere le macchine con i vetri sfasciati e una banca con le vetrate sfondate. Ma allora da qui i Black Blocs sono già passati?
Mi telefona la mamma della ragazzina a cui dovevamo dare supporto: oddio le immagini che la televisione ci manda sono terribili, c’è una guerra in atto. Lei grida ed io sono sconvolta. Ma come? qui è tutto tranquillo. Richiamo mio figlio e non sono ancora partiti, anche lui mi conferma che è tutto tranquillo, e mi rasserena il fatto che siano ancora lì. Intanto noi vediamo la prima macchina bruciata e già spenta dai Vigili del fuoco e altre macchine sfasciate, altre vetrine sfondate. Ma che furia è passata di qua? Dai furgoni, partono i primi appelli di calma e di non accettare le provocazioni. Proprio in quel momento una trentina di giovani mascherati ci superano e il corteo si ritrae come fossero appestati. Qualcuno grida: “Siete fascisti!” “Fuori, fuori, fuori!” Ma la gente ha paura, si sente, si capisce. Dietro a questo manipolo ci corrono un po’ di ragazzi a viso scoperto, sembra che abbiamo visto il messia. Ragazzini che forse per la prima volta vedono il male, l’odio puro e ne vengono affascinati. Ho pensato che non potevano avere l’età per conoscere davvero la rabbia e la delusione, che erano solo ragazzini in cerca del gioco e della grande avventura. Dio santo, ma che potevano farci quei ragazzini? Quale pericolo potevano essere per noi, per il movimento che si era messo in cammino oggi?
Mi ritelefona la mamma disperata: non riesco a parlare con mia figlia, per televisione fanno vedere una guerra, hanno bloccato via Labicana e hanno messo a ferro e fuoco una caserma e occupato una chiesa, per favore vai a prendere i ragazzi e portali via. Sono spaventatissima, chiamo in testa al corte, sono già da un po’ in piazza S. Giovanni che è gremita. La polizia lì sta caricando e non si sa bene perché, il corteo è già tagliato in tre tronconi, c’è del fumo nero e alto che vediamo pure noi. C’è un ferito grave. C’è che quelli in piazza S. Giovanni stanno scappando, cercando di allontanarsi dalla polizia e dai violenti. Richiamo mio figlio, ma non riesco ad avere la linea. Parlo con Patrizia che parla col megafono del furgono e che mi conferma che c’è una guerra in corso. Passa un’ambulanza che risale Via Cavour, da dove siamo venuti. Io blocco Mario e gli dico: torno indietro vado dai ragazzi. Lui mi dice di non esagerare, che se stiamo calmi e non ci facciamo provocare tutto andrà bene. Eh no che non va bene, io ho Marco e Shaden in coda al corteo e loro non sanno niente, stanno solo aspettando di partire e magari a Termini questi quattro energumeni stanno facendo il caos e magari la celere carica e ci rovinano i figli.
Forse a tratti sono melodrammatica, ma non riesco più a stare nel corteo, ormai non ho più voglia di manifestare, ho già consegnato la mia bandiera della Flotilla a qualcuno e non ho che il pensiero alla coda del corteo.
Mario sa che non può fermarmi e sa che me ne andrò anche senza di lui, sa che ne sarei straziata, ma che non posso continuare. Intanto chiamo mio figlio e non riesco ad avere la linea. Mi chiedo dove sono le “mamme” che erano partite con noi. Poi al ritorno saprò che come cani da guardia hanno piantonato il corteo degli studenti, ma senza nessun potere. I padri chiamavano spaventatissimi e loro non riuscivano a cavare i loro figli o figlie dalla manifestazione.
Mario si decide: torno indietro con te e assieme a noi viene Mirna, la nostra amica brasiliana. Mio cognato e sua sorella hanno fatto un’altra strada e hanno visto gli scontri, mi chiamano e confermano che è davvero una guerra.
Risaliamo il corteo e solo allora la realtà ci appare in tutta la sua forza e anche la sua innata debolezza: c’è una marea, ma che dico, un oceano di gente, che non sa niente e non ha visto niente. E i ragazzi sono ancora alla stazione Termini. Sono ore che aspettano di partire. Mio figlio mi rassicura: ma dai, non fare la madre in ansia, qui è tutto tranquillo. Io cerco di fargli capire che magari lì sembra  tutto tranquillo, ma non riesco a spiegargli che risalendo la strada io mi incontro con una distruzione che prima non c’era? Come faccio a fargli capire che se arrivano al Colosseo, siamo perduti?
Facciamo una fatica boia a risalire contro corrente, non c’è spazio, e dobbiamo ritagliarci gli spazi con decisione. La gente ci guarda come fossimo dei matti. Più si risale il corteo e più c’è gioia ed allegria, come se fosse la giornata più bella della vita. Non sanno che sotto, alla fine della strada, c’è l’inferno. Ma perchè nessuno ferma il corteo? Ma perchè non li deviano su un altro percorso?
Mi richiama la mia amica e mi dice che persino la polizia sembra non riuscire a fermarli, Almeno da quello che mostrano in tv. Mi viene un sospetto: e se non volessero fermarli? Poi mi do della “complottista” da sola, non è possibile che siano così folli da mettere in pericolo… quanta gente? Un milione, un milione e mezzo di persone? Esagero? Faccio un po’ il conto della strada percorsa dal corteo, e dal tempo che il fronte della manifestazione è arrivata a piazza S. Giovanni che era già parzialmente piena. Sono quasi 2 ore che io vedo gente davanti e gente dietro e dietro ancora e non finisce più. E dietro c’è un mondo intero, con le famiglie e le carozzine e le bandiere di tutti i colori e l’allegria negli occhi: che grande e bella giornata oggi!
Richiamo mio figlio. Gli studenti sono entrati nel corteo. Maledizione e adesso? Mi dice più o meno dove si trovano, sono solo all’inizio mi spiega qual è il camion dietro al quale si trovano. Dice di stare calma. Ma ragiona, come faccio a stare calma se so dove vi state infilando. Sento che la sua pazienza è al limite. Ma i miei nervi sono già saltati e non posso dirgli togliti da lì e cercami Shaden perchè lui è un uomo e prende le sue decisioni e Shaden non so nemmeno dove sia. Nemmeno la mia amica lo sa.
Intanto il mio telefonino dà segni di cedimento, la batteria si sta scaricando. Sfrutto quello di Mario, che nel frattempo ha cercato degli amici che stanno in mezzo. Quello più giovane ci fa promettere di stare lontano dai disordini, ci fa giurare. Ma che cazzo sta succedendo.
Finalmente vedo gli studenti, sono moltissimi e organizzatissimi, forse hanno anche un sistema di sicurezza, forse hanno imparato pure loro ad usare i Katanga, come facevamo noi dopo il ’68. Ma questo servizio d’ordine è fatto da ragazzini. Ma che esperienza hanno? Non ci si butta in mezzo al caos così. I primi sono gli studenti medi, i piccoli, sicuramente Shaden è con loro. Impossibile vederla. A mio figlio non posso più telefonare, non posso tirare la corda della sua pazienza. Mi chiama la mamma di Shaden dice che è sempre peggio, che non sa più cosa fare, ma poi le viene un’idea e mi dice che chiamerà i numeri che avevamo preso su Facebook della Casa dei diritti civili e di Giuristi democratici, vuole sapere dove faranno finire i nostri ragazzi. Mio cognato e sua sorella cercano anche loro di raggiungerci. Faccio chiamare mio figlio dallo zio, ma so bene che non uscirà dal corteo.
Finalmente vediamo il camion del teatro Valle occupato con musica ed allegria a non finire e dientro a duecento metri il furgone dei We camp dove stanno anche gli studenti fiorentini. Ovviamente non vedo mio figlio, come potrei, sono una marea… sono delusa, spaventata, incazzata. Com’è possibile che una bella cosa come questa diventi un incubo? Sono incazzata perchè mi hanno fatto morire di paura, perchè mi hanno cancellato la gioia di partecipare e di portare al mondo anche il mio messaggio. Mi hanno trasformato il sogno in un incubo, hanno trasformato una giornata di sole e di colori e di musica in fumo, grigiore e paura. Sono incazzata, ma contro chi? Chi sono? CHI? E perché? PERCHE’?
Arriviamo finalmente a Termini e incredibilmente la piazza è ancora piena.
E’ quasi buio e ho il telefonino quasi scarico. Lo stress mi ha tagliato le gambe e mi ha svuotato il cervello. Per i ragazzi non posso fare molto né con il telefonino né con la mia buona volontà. Entriamo in stazione e ci mettiamo al bar d’angolo. Mario chiama mio figlio che mi parla e mi rassicura, il loro corteo è stato deviato… era tempo, ho un sospiro di sollievo, limitato, ma sollievo.
Richiamo gli amici in testa al corteo, anche loro si sono ricompattati e stanno andando verso la Piramide e si troveranno lì con gli studenti e i gruppi che si sono trovati tagliati fuori. Da quel che so il furgone della Palestina e della Rete romana per la Palestina si è trovato vicino agli scontri e non so che fine ha fatto. Chiamo Valentina che era rimasta con gli altri. Mi dice che è in piazza Vittorio, che sono venuti via di fronte a quel macello. Richiamo la mamma che è rimasta a casa e dico di restare calma, che i ragazzi sono stati deviati e non dovrebbero incontrare problemi. Ma tutto è stato rovinato, tutto sembra macerie di sogni ed illusioni.
Alla fine, fino a che mio figlio non chiama Mario per dire che se ne stanno tornando ai pullman e che mi manderà un messaggio quando arriverà a Firenze, io non riprendo a respirare. Il mio cellulare è morto, non prima di ricevere questo messaggio da Shaden una ragazzina di 17 anni italopalestinese piena di coraggio:
Ho sentito la mamma, tutto ok. Sto tornando indietro. Non potevo tornare indietro prima, perché dovevo partecipare a questa Italia che amo, perché è questa l’Italia in cui voglio vivere e che spero, scontri estremi a parte. Baci Shaden“.
E a questo punto mi è venuto da piangere.

Una vita senza rimpianti

In amore, Donne, Libri, personale on 16 settembre 2011 at 0:15

Esiste una vita senza rimpianti? Me lo chiedo così, senza metterci troppo pathos, perchè la risposta la so. Le domande a cui sai già come rispondere non ti sconvolgono mai, almeno a me succede così. Non è solo perchè sto leggendo questo libro nel quale la protagonista femminile, Orah, durante la sua fuga dalla realtà, in un lungo viaggio a piedi per la Galilea, legge le pagine del suo quaderno che sono state riempite dei rimpianti di altri.
Se avessi anch’io un quaderno blu, cosa ci troverei scritto dei rimpianti degli altri? e quali sarebbero i miei? Forse sono troppo testarda per ammettere che qualche rimpianto ce l’ho e che qualcosa cambierei nella mia vita, se questo mi fosse possibile.
Probabilmente tornerei alla mia infanzia e cercherei di vincere la freddezza di mio padre, anche se so di averlo già tentato e di non esserci riuscita nemmeno allora.
Forse non mi lascerei mettere in un angolo, ancora prima di tentare di fare quello che ho sempre sognato di fare. Probabilmente rimpiango la mia giovinezza, che non fu facile, ma che è stata l’unica giovinezza che ho avuto e che forse ho un po’ sprecato. Forse avrei amato senza nascondermi e senza quello stupido orgoglio che mi ha, comunque, tenuto in vita. Forse, avrei avuto quattro figli, uno diverso dall’altro, ma tutti stupendi (che poi si sa: ogni scarrafone è bello a mamma sua…) avrei studiato per poter fare la reporter nelle zone di guerra e avrei sofferto di quello che vedevo, ma vissuto come sognavo di fare. E più guardo dentro la mia vita è più vedo occasioni perse e rimpianti in agguato. Vedo sogni irrealizzati e tristezze impalpabili. E poi i grandi rimpianti sono solo piccole cose, la vita comunque è una grande avventura, e io di vite ne ho vissute molte, una sull’altra, spesso cambiando direzione o per amore o per forza.
Di questa vita mi sono rimaste poche, ma dolcissime cose. Almeno di questo non ho rimpianti. Se ho sbagliato ho pure pagato fino in fondo, eppure ho conservato tesori dentro di me che non sono stata capace di dimenticare mai. Cose che mi sono tornate indietro assieme alla possibilità di ricomporre i sogni. Non esiste una vita senza rimpianti, sarebbe insulsa e priva di mordente, sarebbe di una noia mortale e fredda come l’Alaska.
E io sono piena di passioni anche se mi sono nascosta bene per il timore di farmi saccheggiare troppo in fondo. Se poi ho un rimpianto grosso è quello di aver sofferto in silenzio, senza che nessuno capisse e se ne curasse. Ecco, ho il rimpianto di non aver tenuto vicino chi si sarebbe potuto prendere cura di me, perché se aspettavo la mia volontà di volermi bene, beh… allora sarei ancora qui ad aspettare.