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Il Muro e la formica (di Daniela Marrapese)

In amore, Viaggi on 20 gennaio 2015 at 16:54

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Prima di partire avevo paura. Paura di dover assistere a manifestazioni di estrema violenza, timore di potermi trovare davanti a soprusi che non sarei stata in grado di sopportare.
Solo dopo ho capito che avevo peccato di ingenuità. Che, se vai in Palestina, non hai bisogno di essere sfortunato per testimoniare violenza e soprusi. Ti basta andarci e guardare, andarci e ascoltare. Ti basta andarci.
L’abuso, in Cisgiordania, non è episodico e “plateale”. E’ continuo. A volte, silente e reiterato, cerca di farsi “normalità” per passare inosservato, ma non ci riesce.

Lo incontri nelle strade interdette ai palestinesi, nei checkpoint, negli insediamenti che si mangiano la terra, palmo a palmo, nel colore diverso delle targhe delle automobili, nella sottrazione dell’acqua, negli ulivi bruciati, nei muri che separano le persone e nella grate che le ingabbiano. L’abuso è quotidiano, versatile e infaticabile. Quello che avevo sottovalutato, prima di andarci, è che altrettanto o, forse, ancora più versatile e infaticabile, è la resilienza di chi, da troppo tempo, subisce questa violenza.

La resistenza che ho visto, nei miei pochi giorni in Palestina, si serve di strategie costruttive, di strumenti creativi e non violenti; sa usare menti aperte e generose e, spesso, ti guarda con occhi sorridenti. Oppone (anche) la musica alla segregazione [Al Kamandjati]; risponde (anche) con i clowns allo spettro degli assedi [Human Supporters Association, a Nablus]; schiera (anche) contingenti disarmati di persone travestite da Avatar contro frotte di soldati armati [Bili’in]. Perché l’ironia, prima ancora che un’arma, può essere uno scudo corazzato.

Su un tratto del muro che rinchiude il campo profughi di Aida, a Betlemme, qualcuno ha disegnato una formica gigantesca, ritta sulle zampe posteriori che, mentre sembra ruggire, abbatte le sezioni del muro, come fossero tessere arrendevoli di un grande gioco da tavolo. Non si può rimanere indifferenti di fronte a una formica alta 6 metri, e io non l’ho fatto. Anzi, io le ho creduto. Ho creduto all’umiltà di identificarsi in una formica. Ho creduto nel fatto che una formica, se ruggisce, può abbattere un muro.
La formica è un animale dalla grande intelligenza collettiva e con una fortissima propensione alla socialità…tutto il resto, è un muro che cade, tessera dopo tessera, come in un inarrestabile effetto domino.

Inshallah.

Il coraggio della nonviolenza

In Amici, Cultura, Informazione, Le Giornate della Memoria, Nuove e vecchie Resistenze, personale on 26 Maggio 2013 at 19:55

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Restiamo Umani con Vik – AssoPace Palestina – Venezia
11 maggio Sala S.Lorenzo – Castello campo S.Lorenzo – Venezia

Incontro con i rappresentanti dei Comitati Popolari di Resistenza Pacifica dei villaggi sulle colline a sud di Al Khalil (Hebron).

Al Mufaqarah

Chi avrà trasecolato di più? Mahmoud e la figlia Sawsan nel vedere davanti ai loro occhi il Canal Grande e attorno la città di Venezia oppure noi ad incontrare questi particolarissimi personaggi?
In genere non avremmo dubbi, quel giorno però i dubbi c’erano venuti subito.
Lui vestito come un beduino in un giorno di festa: kufija bianca e cordone nero, lei in jiab o velo con un soprabito lungo fino ai piedi che alla moda fa l’occhiolino, solo per il colore rosso vinaccia. Lui, affabile, mi prende la mano con slancio e mi sorride, confessa che si ricorda di me dal mio viaggio in Palestina, molti mesi prima sempre assieme a Luisa Morgantini, la nostra Luisa, la grande Luisa, ma non lo dice a parole, lui parla solo arabo ed io non capisco nemmeno una parola, lo dice a “motti”, quelli universali, che consentono anche a Mario, italiano anzi veneziano fino al midollo, di farsi capire perfettamente.
Lei invece sembra timida, riservata, forse un po’ spaventata, dalla novità, almeno così penso.
E invece, un consiglio, non valutate mai con il vostro metro un beduino palestinese al primo colpo d’occhio e soprattutto non usate quel metro per comprendere a prima vista una donna beduina, fortemente radicata nel suo ambiente e orgogliosa dei suoi usi e costumi.
Ma di questo racconteremo dopo perché ce ne sarà da dire.
Lui, Mahmoud esce dalle porte della stazione e si guarda attorno, vede barche, gondole, motoscafi, vaporetti e ancor prima di scendere gli scalini mi chiede accennando a dove ci troviamo: “No cars?… No ship?… No donkeys?” forse le sole parole che conosce in inglese, ma che danno un terribile colpo alle mie certezze. Improvvisamente ho pensato a quanto inadeguata possa apparire la mia città con tutte le sue bellezze artistiche alla loro vita antica ed essenziale.
Ed è proprio attorno a questo che si sviluppa la grande esperienza personale e pubblica di questo incontro, che ci ha dato la possibilità di confrontarci con questi due incredibili personaggi. L’incontro oltre che mettere in discussione la visione o la percezione della nostra vita come l’unica possibile, e come esempio unico di civiltà e di orgoglio, certi del benefico effetto dell’evoluzione e del progresso continuo di costumi e tradizioni, mi ha fatto ridimensionare le ragioni per cui noi, in qualche modo, ci sentiamo come “superiori” e dall’alto di questa posizione ci prendiamo la briga di tendere una mano per portare questa popolazione fuori, non dal guado, ma dallo stagno delle loro vite.
E loro invece sono orgogliosi di essere quelli che sono, di vivere in grotte e tende e di rappresentare la continuità e la resistenza contro l’usurpatore della loro terra e contro la volontà di Golia contro il Davide di turno.
Ricordavo la grotta che avevo visitato al villaggio, la povertà e la dignità che non primeggiavano una sull’altra, tutte due immense, ai miei occhi di occidentale. Ora ero incerta di ospitarli nella mia casa, non volevo il loro imbarazzo, né uno sguardo di invidia e nemmeno uno di incomprensione.
Mahmoud entra nel battello pieno di turisti e si guarda in giro come un grande re a passeggio nel regno del vicino e si fa fotografare come un divo, in effetti ama farsi fotografare e riprendere dalle videocamere, come ama mostrarci i video girati ad Al Mufaqarah dove si vede lui e pure quelli che ritraggono Sawsan che viene presa e portata in prigione dall’esercito degli occupanti.
Perché noi siamo bravi a parlare di resistenza pacifica, e quella che abbiamo fatto era resistenza armata, loro invece la vivono quotidianamente e sanno che a reagire con la forza sarebbero spazzati via dalle loro terre con il benestare di questo opulento e amiccante occidente.
Perché a parlare di pace tutti sono capaci, ma a farla nella situazione del popolo palestinese è davvero un’altra cosa, ci vuole un immenso coraggio.
Sawsan, silenziosa, appena arriva in casa chiede dov’è la sua stanza, anche lei non parla inglese e quindi ci comprendiamo a gesti. Penso che sia stanca e voglia levarsi il soprabito pesante, perché in fin dei conti fa caldo e la sua bella figura comunque l’ha fatta.
Sbagliato. Lei scopre che la sua camera ha pure un bagno con il lavandino e quando salgo trovo sul terrazzo tutta la biancheria perfettamente lavata e stesa, non solo la sua ma anche quella del padre.
Scendo di sotto e guardo di sottecchi la lavatrice, anche quella, proprio come Venezia, sta prendendo una lezione di vita.
E qui comincio a produrre thè che loro chiamano shai o chai o qualcosa di simile, ma che viene preso con poco zucchero e un rametto di menta. E poi caffè amaro a tazzone industriali. E qui cominciamo a conoscerci per quello che la lingua ci consente.
Luisa spiega un sacco di cose su di loro, sulla loro vita, su quello che riescono a trasmettere quando raccontano, negli incontri, quello che fanno e sognano. Dice che Sawsan desidererebbe un pc, perché va all’università e ne avrebbe bisogno, dice che Mahmoud, a Supino, era diventato matto quando aveva visto le pecore, così grasse e pasciute e le aveva viste tosare con il tosatore elettrico ed era rimasto veramente colpito. Almeno su una cosa eravamo riusciti a stupirlo.
Ci racconta che a Milano al Castello Sforzesco aveva visto il prato e si era steso sull’erba come sul letto più morbido che avesse trovato.
Abbiamo poco tempo, ci aspetta padre Aktham che ci farà da traduttore e verrà a cena con noi.
Sconsiglio vivamente di portare dei beduini a cena in un ristorantino dove si cucina divinamente il pesce, perché non lo mangiano proprio, loro non sanno cosa sia e credo che sinceramente gli faccia un po’ schifo. Un piatto di verdure grigliate e una cotoletta con le patate fritte li fanno più che felici. Successivamente la mia frittata alle verdure ha ricevuto certamente più complimenti del ristorante in questione.
La sera piove e nel ritorno bagnato a casa Mahmoud guarda l’acqua dei canali dai ponti. Si ferma su tutti indistintamente e dice a Luisa: “Qui c’è acqua in ogni posto e noi non ne abbiamo neanche da bere.”
A parte il fatto che l’acqua dei canali è quella che è, non posso dire che non abbia ragione. I loro pozzi sono stati avvelenati molte volte e lui aveva perso più di 100 pecore a causa di questo. L’acqua è un bene talmente prezioso e noi possiamo consumarlo senza neanche pensarci su un solo momento.
Anche di questo mi sento responsabile e in colpa, in genere lavo i piatti facendo scorrere l’acqua, non sopporto l’acqua insaponata e oleosa ferma. Non sopporto la prima acqua che viene dalle tubature, in genere la lascio scorrere prima di berla e nella doccia lascio che l’acqua diventi calda prima di buttarmici sotto. Insomma un sacco di cattive abitudini a cui ripensare dopo la loro visita.
Il giorno dopo ci si alza presto, mi trovo con Mahmoud in cucina, prima il thè e i biscotti e poi un tazzone di caffe, lui sorride con gli occhi. E’ gentile, per un uomo come lui è quasi galante, mi chiedo, guardandolo in viso, come potrebbe essere stato il giorno che le ruspe gli hanno demolito la casa: una stanza unica per lui, la moglie e gli 11 figli, più un locale per le bestie. Anche questo un po’ troppo per l’occupante che ha destinato la sua terra come “firing zone”, ossia un posto per le esercitazioni dei soldati, ma chiaramente un primo passo per acquisire altra terra e costruire altre case per i coloni.
Come avrà reagito quando la figlia si era messo davanti alle ruspe per impedire la demolizione e i soldati l’hanno arrestata e portata via? Dove non si sa. E che faccia aveva quando gli sono stati chiesti 2500.00 euro solo per sapere dove fosse finita. Aveva continuato ad avere lo stesso aspetto pacifico e inalterabile?
Eppure i suoi occhi sono terribili, ti scavano dentro, con calma serafica ci dice che avrebbe speso anche 1 milione di euro per trovare sua figlia e ne parla con orgoglio di un padre che la ama e rispetta profondamente.
Arriva Andrea, uno degli angeli di Operazione Colomba, e si abbracciano con gioia e trasporto, per fortuna abbiamo qualche altro traduttore dall’arabo.
Sawsan ha fatto ancora bucato, inutile dire che potevamo usare la lavatrice. E’ sabato, li porto al mercato, cercando di portarli lontano dalle macellerie dove sono appese carni di manzo e di maiale nella stessa vetrina.
Mario decide di portarli in gondola e fare traghetto da una parte all’altra del Canal Grande, per loro è come un gioco da bambini però i gondolieri li guardano male e chiedono la tariffa supplementare. Se proprio vuoi considerare una categoria di gente ottusa e un po’ ignorante, pensa ai gondolieri e ci azzecchi subito.
Invece Mahmoud si ferma a parlare con tutti, insomma non proprio tutti tutti, ma con tutte quelle persone di carnagione scura, che potrebbero essere persone come lui. Imparo un’altra cosa e resto basita: lui ha un radar per le persone umili, per quel popolo che risulta a noi invisibile. A me sono invisibili però a lui no. Poi torna e comunica: “Bangladesh!” senza nessun pregiudizio, solo per farci capire che non era un arabo, ma un indiano. Solo qualche volta trova qualcuno con cui scambiare delle parole in arabo e torna felice come un ragazzino.
Ora di pranzo, preparo la famosa frittata alle verdure e una pasta al sugo piccante, la frittata vince su tutto.
Luisa è uscita per fare compere e torna con un sacco di regalini per i nostri ospiti, lei è generosa come una fatina ed è felice di poterli stupire, ha preso tante mascherine di carnevale colorate col magnete e gli dice: “Sono da attaccare al frigorifero…” poi ci guardiamo e ci scappa da ridere… ma possibile che noi occidentali siamo sempre così sprovveduti, “Beh insomma si attaccano dove vuoi…” va già meglio, ma l’idea di Luisa è carina e gradita a prescindere.
Arriva l’ora di partire per S.Lorenzo, Andrea e padre Aktham intrattengono gli ospiti, altri ne arrivano a casa in modo da partire tutti assieme per l’incontro.
Certo che la figura di Mahmoud e di Sawsan in giro per le strade veneziane è straordinaria ma non è poi così assurda, c’è qualcosa di famigliare in una presenza simile, davanti a certi palazzi e vicini a certi portali… ci stanno bene dentro questa città anche se non ci sono auto, pecore o muli come avrebbe preferito il nostro amico.
La sala è una bella sorpresa, che io avevo fatto uscire dal cappello in un gioco di prestigio. Mai chiedere una sala a Venezia, qualche giorno prima dell’inaugurazione della Biennale d’arte. Tutto occupato, niente disponibile, quindi una sala così solo io sapevo di quale miracolo ero stata capace e mi sono detta: “Brava, anche stavolta ce l’abbiamo fatta!”.
L’atmosfera si fa subito calda e famigliare, arrivano altri ragazzi di Operazione Colomba che erano ad At Twani il villaggio poco distante da Al Mufaqarah. Arrivano tanti ragazzi che erano stati da poco o che volevano andare in Palestina. Arrivano anche arabi residenti a Venezia e a Padova. Tutti chiacchierano e Mahmoud e perfettamente a suo agio, sembra davvero nel suo ambiente, ha molte cose da dire, scherza ed ha uno strano humor molto inglese.
Lui è il primo a parlare e racconta com’è il vivere nella sua terra ed io so di cosa sta parlando perché quel villaggio l’ho visto, quel coraggio l’ho toccato con mano e ogni volta mi chiedo quanto di quel coraggio ci vuole per restare a cavar sassi dalla propria vita. Quanta forza ci vuole per restare aggrappati lì, anche se scacciati, umiliati, angariati, tornare alla propria terra che in verità a noi pietraia sembra.
Luisa, quando lui termina, ci dice che sarebbe bellissimo poter comperare alla comunità di Al Mufaqarah un tosapecore elettrico, neanche a dirlo troviamo subito chi offre di finanziare l’acquisto e Mahmoud stringe mani con la felicità negli occhi e nel sorriso. Venezia porta bene.
Poi è il tempo della piccola Sawsan che di timido ha solo l’aspetto. Il suo racconto è chiaro e puntuale. Racconta di alzarsi alle 5 di mattina per mungere le capre e le pecore, poi si fa sette km a piedi per prendere l’autobus che la porta all’università di Yatta, dove studia Antropologia. Ma questo non le basta, fa un corso di informatica e pure uno di pronto soccorso, tutte cose che sono utili alla sua comunità. Poi alla sera c’è pure il ritorno a casa, stessa trafila, stesse difficoltà. Racconta dell’arresto e del carcere e cosa il giudice israeliano le aveva imposto per farla uscire: non ritornare più al suo villaggio. Lei dice che nessuno l’avrebbe tenuta lontana dalla sua terra, nessuno poteva imporle questa terribile ingiustizia. E ci dice di quanto è orgogliosa della vita che fa, del luogo dove è nata, del modo come la comunità risponde all’occupazione israeliana. Quanta dignità e forza in quella piccola donna. Era stato troppo facile sottovalutarla per poi scoprire tanta grandezza d’animo e tanta forza in una persona sola.
Tra video e racconti, la serata volge alla fine. I nostri due ospiti hanno recuperato un pc portatile e un tosapecore, insomma un sogno realizzato che forse non avevano mai neppure sognato.
A sera si torna passando per piazza S.Marco. Tutti si fanno fotografare davanti alla chiesa e Mario, con un tempismo dubbio, racconta come le spoglie di S.Marco fossero state portate a Venezia dall’oriente, nascoste sotto la cotenna di un maiale. Il racconto non è stato proprio apprezzato, chissà perché, anzi lo so, ma effettivamente male o bene questa è comunque Storia.
Alla sera cena tutti assieme, con pizze e pastasciutta, cose che mettono assieme oriente ed occidente con tanta allegria.
Ma alla fine della fiera quante cose avevamo imparato?
Davvero tante, almeno questo era quello che potevo dire per me. Non solo capire che esiste anche una possibilità di vivere diversa, e di godere di quello che si ha, ma anche di quanta forza ci si deve dotare per resistere pacificamente in certe situazioni di violenza e ingiustizia quotidiana. Sarei capace di farcela? Personalmente non lo so, ma penserei che se Mahmoud e Sawsan e Afez e le comunità dei villaggi a sud di Al Khalil ci riescono, allora vuol dire che forse potrei imparare questo coraggio pure io. E finalmente appoggiando la loro lotta difficile seppur così naturale, posso finire col perdonarmi di essere una viziata occidentale e pure anche spocchiosa. Ora che la loro presenza è entrata nella mia vita, posso dire che qualcosa effettivamente e definitivamente è cambiato. Non solo ti cambia modo di vedere le cose se vai in Palestina, ma ti cambia anche molto quando la Palestina viene da te e noi di Restiamo Umani con Vik – AssoPace Palestina, siamo pronti a cambiare e ad imparare che non c’è libertà senza giustizia e non c’è giustizia senza diritti umani.