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Ancora su mia madre

In Anima libera on 24 aprile 2011 at 22:30

Foto BN di bambina in braccio alla mamma in battelloPremessa alla parte ventesima
Fuori dalla finestra l’Italia è solo un paesaggio bianco, infarinato come una torta candida. Il mondo è un mondo irreale, parrebbe da favola. La gente che passa cercando di resistere all’aria gelida lascia il segno del suo passaggio. Anche quello verrà cancellato presto. Io guardo quella vecchia foto e mi sembra già la foto di un mondo che sta scomparendo. Non vi siete mai accorti quanto importanti sono le casualità nella vita? Faccio un esempio: nascere con i capelli rossi. Mica sei come gli altri. Anzi, lo sei, ma sono gli altri a vederti diversa. Ancora: il caso mi ha portato in una scuola privata a stretto contatto con delle suore che hanno un quoziente di umanità pari a zero. Metti che fossi andata alla scuola pubblica; magari, avrei notato lo stesso difetto nella solita insegnate zitella. E mi sarei risparmiata di diventare atea così giovane. Poi c’è stata la nascita del Piccoletto. E’ stato forse un caso che quando ha visto sulle scale di casa un prete gli abbia gridato dietro un “Macaco!” senza appello? Che posso dire: “Noi rossi siamo fatti così… improvvisiamo! E lo facciamo bene“.

Ci sono cose che mi sembra si ripetano, come se fossi destinata a viverle due volte. Come se i giorni e gli anni ritornassero a presentarsi. Tutto almeno due volte. Di questo passo non diventerò mai grande. A me mia mamma mi sembra bella. So bene che non ve lo avevo mai detto che mia madre è nata lo stesso giorno e lo stesso anno di Marylin Monroe. Non che questo voglia dire un granché, ma in casa di un ciabattino anche questi particolari fanno sensazione. Che poi tra le due donne c’è ben poco in comune. Mia madre è insicura e spaventata, mentre Marylin si prende tutto quello che vuole. Anche nel modo di vestire non ci sono paragoni, mia madre si fa i vestiti da sé, mentre l’altra… beh! sono proprio diverse. Che poi mia mamma la rivedo piangere cercando di non farsi vedere. Qui qualcosa non torna, e finisco che capisco tutto quando la vedo vomitare e star male. Le influenze non durano settimane. E lei piange e vomita. Se continua così bisogna ricoverarla in ospedale.
Mio padre invece mi sembra vecchio. Sembra il padre di mia madre. Viene il dottore di famiglia che le consiglia di sciogliere un ghiacciolo in bocca, ma appena la sente vomitare le prescrive tre farmaci diversi, uno al mattino, uno al mezzogiorno e uno alla sera. Lei li prende come da copione, ma continua a vomitare più di prima. Ritorna il medico e le prescrive altri medicinali e rendendosi conto che si sta disidratando le attacca una flebo al giorno, ma lei continua imperterrita a vomitare e piangere. Viene chiamato un professore, che le cambia tutti i medicinali, ancora, ma senza risultati. Per fortuna che la natura ci pensa da sola e dopo quattro lunghi mesi, mia madre si riprende e ricomincia a mangiare, ma non smette di piangere.
Il Piccoletto è molto spaventato e mi si attacca alla gonna e non fa un passo senza di me. La mamma sembra sospesa sopra una nuvola e lui è convinto che prima o poi sparirà in cielo. Che schizzerà via come un missile. Inutile tergiversare. Ormai sono grande e l’enciclopedia mi ha spiegato tutto su come nascono i bambini, o almeno così spero. Allora sostituisco la mamma nelle cose di casa e mi prendo cura del Cosino, salvandolo spesso dagli artigli di Ernesto. Guardo quella vecchia foto e mi sembra già la foto di un mondo che sta scomparendo. Chissà se mi assomiglierà la mia nuova sorellina? E se fosse maschio? No! ho deciso sarà femmina. Sarà femmina come me, anche per una questione di giustizia.
Quando imparerà mia madre che ormai sono una donna? Io l’ho anche proposto, a Ernesto, di prendermi la sua età e di dargli la mia, tanto è fin troppo la mia per la sua testa, ma lui ha paura che sotto ci sia un imbroglio. Insomma il pusillanime se la prende sempre con chi è più piccolo e debole, ma se la deve vedere con me. L’altro giorno ho tirato fuori il coltellaccio per tagliare la carne e gli ho detto: “Dai, vieni a prendere il Piccolo se hai coraggio!” e ho sventolato il coltello che neanche Tremalnaik. Ovviamente si è rifugiato dalla mamma a dire che lo stuzzicavo. Ma la mamma che non stava bene non gli ha badato più di tanto e ci ha gridato di smetterla.
Invece io sono preoccupata oltre che per la mamma anche per il mio fratellino perché diventa sempre più dipendente da me. Ogni sera devo accompagnarlo a letto e farlo addormentare cantandogli le canzonette di Sanremo. Adesso che sa parlare quasi decentemente, me lo dice chiaro e tondo: “Tata, non andare via, portami sempre con te.” E adesso come farò a fargli capire che sta arrivando un altro fratellino o sorellina e la nostra mamma non è felice per niente?
Adesso è successo un patatrac, oltre al fatto che Marylin si è suicidata, si dice per amore del presidente degli Stati Uniti, quello che chiamano JFK, o del fratello, non ho ben capito, è scoppiato anche lo scandalo Talidomide. No, Talidomide non è un personaggio importante, o un eroe dei fumetti, ma semplicemente un medicinale antivomito che fa nascere i bambini focomelici. In America lo hanno ritirato dal commercio, ma dopo che sono nati molti bambini malformati. E in Italia? Qui tutto arriva in ritardo. Sia le informazioni che i divieti. Mia madre è impazzita. Non si ricorda più quali medicinali le hanno prescritto e tutti li ha buttati quando non le facevano nessun effetto. E adesso che succederà? Io mi stendo sul lettone vicino a lei e le parlo e subito il Piccoletto si stende vicino a me e mi ascolta. Mi fa sorridere vedere che si muove come mi muovo io. Accavalla i piedini, si gratta la testa, e si arrotola i riccioli come faccio io. La mamma non ci vede, lei ha davvero troppo su cui pensare. “Dai mamma alzati che ti ho preparato un po’ di minestra e poi, se vuoi, ti aiuto con i ferri a fare le scarpine di lana”. Lei scoppia a piangere. Ma che ho detto di male? Oh… porcaccia… le scarpine da fare sono per due piedini e se il nuovo fratellino i piedi non ce li ha? Ma tutte a noi devono capitare?
Non pensate che mia madre sia una che piange sempre, non è del tutto vero, qualche volta l’ho vista sorridere, anche se per la verità non ha dei grandi motivi per ridere. Mio padre, il conte, non è mai presente e anche se lo fosse non ci aiuterebbe ad essere allegri, sembra sempre che abbia inghiottito un manico di scopa. Però ho notato che quando io e il Piccoletto parliamo nel nostro modo assurdo un po’ imitando gli adulti e un po’ in bambinesco lei si rasserena. Certo che siamo bravi a fare il teatrino. Ernesto ci guarda come fossimo due mentecatti e non capisce niente di quello che diciamo. Ma si sa: lui non eccelle in intelligenza. Il farfugliese è il nostro pezzo forte e mamma ad ascoltare e a guardarci a volte si addormenta serena. Piccoletto sostiene che dovremmo perfezionarci nel teatro dell’assurdo, lui lo chiama così. Io gli rispondo che basta che mamma dorma un po’ e che è tutto quello che voglio almeno fino alla nascita del nuovo mocciosetto.
Sono stati mesi da incubo. E da quell’incubo è nata una pargoletta rossa con due stupendi occhi azzurri. La prima cosa che la levatrice ha fatto è stata quella di contare tutte le dita di mani e piedi e di rassicurare mia madre. Perfetta sì, ma anche una perfetta rompipalle. Mai visto una bambina piangere tanto senza nessun motivo. Pargoletta farà degli occhi bellissimi se continua così. Piccoletto che invece è tendente al ridere, le si avvicina e le fa le boccacce, le facce buffe, insomma quelle cose che ai bambini piacciono sempre. Lei lo guarda con gli occhi a pallettone e poi finisce a piangere più forte. Ma riusciranno mai a comunicare quei due?
Se con Piccoletto ho cominciato a parlare subito, con Pargoletta l’unica a parlare è mamma. Si capiscono al volo quelle due. Sarà che son pratiche di lacrime. La reazione di delusione di mio padre era prevedibile: “E’ nata un’altra seppiolina!” ed è finita lì. Possibile che le femmine a lui facciano sempre lo stesso effetto. Le vede, le cataloga e le dimentica. Non lo sa ancora, ma non avrà vita facile. Adesso in casa siamo pari, tre femmine e tre maschi e non intendo lasciare loro troppo spazio. Intanto il piccolo sfugge al barbiere di famiglia. Sono riuscita a fargli crescere i capelli in riccioli nobili e morbidi sulle spalle. Ogni volta che mio padre avvisa che arriva il barbitonsore, io prendo il bambino e corro ai giardini a fargli prendere aria. Così i capelli si allungano e lui assomiglia sempre di più ad una bella bambina. Arriverà il giorno che dovrò farlo rientrare nei ranghi, ma per ora corriamo ai giardinetti gridando: “Signor Nube non avrai il nostro scalpo!”

La signorina Bombarda

In Anima libera on 19 aprile 2011 at 21:10

Foto di Ross con padre, madre e fratello in montagnaPremessa alla parte diciannovesima
Mi sembra impossibile che ci siano grandi che non sanno scrivere. Lo so fare pure io che ho appena dieci anni. Però… imparare dalla televisione mi sembra molto più divertente. Lo farei pure io se non fosse che per farlo dovrei ricominciare dalla prima e questo proprio non mi va. Che strana impressione che fanno quei nonnini, con la testa china sopra i quaderni. Quanta volontà ci deve volere per mettersi a fare le aste e le vocali e le consonanti con le loro mani tremanti. Io con la televisione non ho un grande rapporto di fiducia, ma in questo caso mi sembra faccia una gran bella cosa. Ma lo sapete che ci sono molte persone che firmano mettendo una x al posto del loro nome? E poi il maestro Manzi deve essere una gran brava persona. La televisione, in questo caso, mostra la sua faccia più utile, perché a volte, almeno per me è una scatola piuttosto noiosa. Spesso il Piccoletto se ne sta con gli occhi sbarrati appiccicati là e nemmeno sente quando lo chiamo. Sembra ipnotizzato. Non so da chi ho preso ma non faccio che pormi tante domande su ogni cosa. So di essere un po’ diffidente ma la fiducia è una cosa seria ed io la do con molta cautela. Non sopporto le cose che puzzano di bruciato e che invece io dovrei accettare sulla parola. Il mondo appartiene agli adulti. Se lo sono fatti per loro, a loro misura, come piace a loro. Con tutte quelle regole e le cose tutte in quel preciso ordine. Ogni cosa in un dato momento del giorno. Si mangia alla tal ora e poco importa se la fame ti viene in un’altra, si aspetta buoni che torni a casa il papà e alla talaltra ora si deve andare a letto o a scuola, si deve fare silenzio quando lui riposa, ma non ci pensa mai a noi quando guarda per televisione lo sport. Si devono sempre fare i compiti ma anche no, perché quando c’è da badare al Piccoletto, e c’è sempre da badare al Piccoletto, allora quelli possono anche aspettare e tutti se ne dimenticano. Potevi farli prima. Ma prima di che? Per fortuna sono veloce e mi piace studiare quasi quanto mi piace badare al Piccoletto.

Dicono sempre che ho una faccia da arrabbiata. E forse è pure vero. Ma cosa posso farci? C’è un solo motivo per cui non dovrei esserlo?
Se esistono gli anni stupidi ecco! Il sessantuno è uno di quelli. A settembre inizio l’ultimo anno di questa benedetta scuola, ma mi sto annoiando: ho come la sensazione di non aver più nulla da imparare. Ho voglia di cambiare aria. Me ne devo stare lì ad aspettare le tartarughe; gli altri. Non è che io mi senta diversa, migliore, solo penso che potrebbero lasciarmi utilizzare meglio il mio tempo. Ci deve essere un altro modo. Se qualcuno non ha ancora imparato bene a leggere e scrivere mica posso cancellare tutto e tornare, come si dice? analfabeta, per ricominciare. Aiuto le altre ma dopo un po’ mi stufo, non mi piace fare la prima della classe. Le suore mi mandano a lezione di canto col vecchio maestro del coro. Mi fanno fare i disegni e li mandano ai corcorsi e spesso li vinco. Mi fanno scrivere temi liberi, per tenermi impegnata E io anche mi ci diverto, ma è tutto uguale e anche i giorni mi sembrano tutti uguali. Non c’è niente che mi fa stare bene.
Il Piccoletto cresce ma cresce troppo lentamente, prima aveva una testa grande e adesso sembra rimpicciolita. Lo misuro tutti i giorni e ogni volta me ne resto delusa con un palmo di naso. Anch’io cresco lentamente, almeno così mi pare anche se i vestiti da lunghi mi diventano cortissimi in poco tempo. Alta sono alta, mi infilano sempre tra gli ultimi banchi. Ho una grande fretta ma chi non l’avrebbe nei miei panni? Vorrei non dipendere da nessuno. Vorrei fare un sacco di cose. E intanto continuano a ripetermi fino allo sfinimento che sono un’anima ribelle. A me non sembra. Mi sento più prigioniera che ribelle. Se fossi più libera mi sentirei meno ribelle.
C’è poi sempre questo problema dell’anima. Ma che sarà mai? Io l’ho disegnata come una nuvola, una specie di soffio tiepido che senti dentro come un solletico o un organo della digestione. Perché o è una cosa concreta oppure potrebbe non esistere. Io so che il cuore è un muscolo e non quella cosa vaga che dovresti avere dentro. Insomma quel luogo dove nascono i sentimenti. Ormai le cose le so e non è facile farmi fessa.
E l’anima? Dicono che qualcuno non ce l’ha e pure il cuore non è cosa da tutti. Per esempio il cuore come muscolo, mio padre ce l’ha di sicuro, credo che ce l’abbiano tutti, altrimenti una persona non vive. Il cuore come sede dei sentimenti, ecco quello magari gli manca, credo che non sappia nemmeno dove sta di casa. Per l’anima poi… magari non ci crede nemmeno lui. Sinceramente faccio fatica a capire cosa pensa. Sicuramente che i comunisti sono cattivi. E come la mettiamo col fatto che voglio fare la comunista?
A lui interessa che io ubbidisca e dell’anima credo non gli interessi niente. Ne fa una storia per fregare me e inculcarmi in testa che il dovere e l’ubbidienza è un mio obbligo e lo impone come una cosa che non si può contestare. Una fregatura comoda per loro. Facile da imporre se tu non hai la testa per saperci riflettere. Vogliono renderti come un burattino. In certi momenti credo di odiarlo. A volte per mia madre, per come la tratta, cioè per come nemmeno la tratta. In certi altri non ho bisogno di aiuti e lo faccio per come tratta me. Mai una parola gentile, mai un’attenzione, e sempre quell’aria severa e di superiorità. Spero non pensi di poter allungare le mani anche sul Piccoletto perché dovrà vedersela con me. Di lui non ho paura. Lo so affrontare a muso duro. E questo lo fa imbestialire ancora di più. E’ forte mio padre e non sopporta che io lo sfidi, comunque le botte nemmeno le sento. Quando si combatte per una giusta causa anche il più grande dei sacrifici pesa meno. E non mi costa nessuna fatica nemmeno quelle sere che devo andare a letto senza cena, che per noi la cena è sempre una scodella di caffelatte col pane. Che poi a me il caffelatte non piace. Preferisco il latte, e freddo per giunta. Anche il latte freddo è proibito. Bisogna bollirlo e a me bollito fa schifo. Uffa non c’è verso di fare qualcosa liberamente. Comunque io so sognare e nel mio letto e nel buio non gliele risparmio né gliele mando a dire.
Nei sogni vorrei essere come Jurij Gagarin. Certo è emozionante pensare che è lassù. Che ci guarda in testa e ci vede piccoli, come formiche, e vede il mondo piccolo come un’arancia. Bello pensare che un uomo è in mezzo alle nuvole, anzi sopra. Alzo gli occhi e scruto sempre il cielo, anche se so che non lo posso vedere. La distanza è tanta, troppa, e mi acceca il sole, oppure il buio è profondo. Ma a volte tra le stelle vedo una lucina piccolissima che lentamente si sposta nel cielo. Che sia lui? Però ha proprio la faccia da eroe. E’ anche bello. Hai visto i russi? Gliel’avevo detto io a Ernesto, ma quello, si sa, non ha occhi che per Cape Canaveral. Ma perché le cose interessanti le fanno fare sempre agli uomini. Manderanno mai in cielo una donna? Io credo di sì. I russi ne sono capaci. Personalmente penso che sia il viaggio dei viaggi. Certo che vorrei essere io quella donna. Gli americani stanno morendo di invidia e affermano che loro vanno sulla luna. Che piccole battaglie da bambini. Dovrebbero essere contenti come faccio io. E poi andare sulla luna? Certo che le sparano grosse. Eppure le cose cambiano veloci, più di quanto riusciamo a pensarle.
Forse è solo un fuoco di paglia. Forse sembra che tutto cambi per restare tutto sempre uguale. Pare diventare più grande o sempre più piccolo.¹ Si preoccupano dei poveri a parole ma poi non fanno nulla per loro. Si preoccupano di chi soffre.² Hanno bisogno di liberarsi la coscienza. A me mica la fanno. Vorrei fare, naturalmente, pure io la cosmonauta. Girare per lo spazio. Ormai non mi basta più la mia macchina da cucire.
L’uomo arriva in cielo e qui sulla terra, da noi, in Italia, fanno ancora la guerra. La guerra della notte.³ Ed è una guerra strana e stupida, se mai la inventeranno una guerra intelligente. Ma quelli che muoiono sono italiani. Quasi tutti finanzieri. E per le strade del mondo girano i carri armati. Costruiscono in Germania muri lunghi come quello della Cina. Credo che ogni uomo libero, e naturalmente ogni donna, non possano che aver orrore e vergogna per i lager. Sarà perché, come dicono loro, sono piccola, ma non riesco a capire. E credo che per quanto possa crescere non ci capirò mai nulla. Ma almeno sembra che per i neri americani potrà andare meglio. Qualcosa farà pure questo nuovo Presidente. E spero che certi criminali imparino che la giustizia vera ha la memoria lunga e non dimenticheremo mai.
Insomma se nell’anno non mi sono successe cose entusiasmanti da trascrivere, almeno durante l’estate ho avuto il mio momento di gloria. Ci siete mai stati in colonia? No vero? Allora non potete capire. Per me è stata la prima volta, ma spero anche l’ultima. E’ stato un orrore e per fortuna mia madre ha pensato che è stato anche un errore. Come prima cosa mi è mancato da morire il Piccoletto. Mai nessun scarabocchio sul quaderno, e nessuno da far addormentare alla sera. Io sto sveglia per ore nella camerata enorme. Mi sono messa vicino alla porta di uscita, mi fosse mai venuta la voglia di scappare.
In colonia ho ritrovato gli orfanelli dell’Istituto a cui avevo lasciato il disegno dell’anima prigioniera. Qui sono meno grigi, non sembrano nemmeno ombre come mi ricordavo. Loro qui si trovano bene. Dicono che si mangia bene ed io passo sempre i miei piatti a chi mi sta vicino. E alla notte ho fame. Ho persino iniziato a mangiare il dentifricio, almeno il gusto assomiglia a quello delle caramelle alla menta. Ma potrò durare un mese così senza mangiare? In effetti non ci riesco e finisco in infermeria. Ma è una buona cosa perché lì conosco la signorina Bombarda. Anche lei è un’anima ribelle, e non è vista bene dalle altre signorine. E’ lunga lunga e magra, e sinceramente pure bruttina. Ma ha l’aria che non gliene importi niente. Lei mi guarda, io la guardo e ci capiamo subito. Si avvicina al letto e mi dice: “Vedi di uscire che dobbiamo fare cose speciali. Se stai in infermeria, ti viene la malinconia e poi ti perdi il bello”.
Non chiedetemi perché ci ho creduto, ma mi sono fatta passare la febbre e mi sono incollata alla spilungona. Sembrava che me lo sentissi. Ogni giorno si inventa qualche cosa. Un picnic sull’erba con pane e cioccolato o una grigliata di wurstel stile boy scout. Almeno di notte non resto più sveglia per la fame. E poi alla sera, all’ora dell’ammaina bandiera, quando è il suo turno mi chiama sotto il pennone e lo fa fare a me. Che grande emozione, neanche fosse una premiazione alle Olimpiadi, ed io la premiata. La signorina Bombarda si è rifiutata di mandarmi a fare l’insopportabile pisolino dopo pranzo. Mi mette dietro un banco e mi incoraggia a scrivere delle storie su un quaderno. Quale migliore occasione per raccontare le mie avventure coloniche e per fare il verso della nevrotica Direttrice. Me ne sono accorta che le mie memorie vengono lette dalle signorine di nascosto e che ci fanno sopra delle sane risate. Bombarda va orgogliosa della sua pupilla e le altre, quando mi passano vicino, non si scordano mai di farmi un buffetto affettuoso sulla guancia. Sarà veramente triste quando ci separeremo. Non ci voglio pensare. E non voglio nemmeno ricordare che riperderò le orfanelle un’altra volta. Pensate cosa sarebbe successo se i miei invece di adottare me avessero casualmente adottato una di loro. Non farebbero le schizzinose come me, loro sì che sarebbero felici.


1] Il 31 maggio – Leonard Kleinrock, ricercatore del MIT, pubblica il primo articolo sulla commutazione di pacchetto, la tecnologia che sarà alla base di internet.
2] Il 28 maggio – Londra: con un articolo pubblicato sulla rivista britannica The Observer, l’avvocato Peter Benenson lancia un appello a favore dell’amnistia per due giovani arrestati a Lisbona durante la dittatura di Antonio Salazar. Inizialmente la campagna di sensibilizzazione sarebbe dovuta durare un anno, invece l’appello attrae migliaia di sostenitori e sfocia nella costituzione di un movimento per i diritti umani: Amnesty International.
3] l’11 giugno – Alto Adige: 37 attentati esplosivi nella notte dei fuochi segnano la nascita del terrorismo sudtirolese.
Il 15 agosto – Nell’ambito della guerra fredda, l’esercito della Repubblica Democratica tedesca inizia la costruzione del muro di Berlino.
Il 30 ottobre – Unione Sovietica: test nucleare della potenza di 58 megatoni, è la più potente esplosione nucleare di tutti i tempi.
Il 15 dicembre – Gerusalemme: Viene emessa la sentenza di condanna a morte per il criminale nazista Adolf Eichmann.

Guerra nucleare ed altre amenità

In Anima libera on 12 aprile 2011 at 13:00

 Il mattino del 6 agosto 1945 alle 8.16, l’Aeronautica militare statunitense lanciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki.

Premessa alla parte diciottesima
Mica lo avrei creduto di trovarmi a questo punto. Ancora qui a raccontare. A spiegare. E qualche volta a giustificare. Avevo cominciato in modo distratto. Come si racconta per una ricorrenza. E avevo messo il giorno e il mese e poi il secolo, ma non l’anno. Già una piccola e semplice vanità femminile che avevo subito denunciato. Allora m’era sembrato tutto già chiaro. E guardavo il mondo diritto negli occhi. Con la sfida di questa mia nuova generazione che è nata con una consapevolezza già nella pelle. Non ero io ad essere diversa, erano loro, i grandi, a renderci diversi. E nel tempo ho capito quanto sarebbe stato difficile. Che tutto il lavoro era da fare. E se ho voluto tenerne traccia è stato per non perdermi anch’io. E per crescere consapevole che avevo già una strada da percorrere, quella della conoscenza. Per fortuna ho proprio una memoria diligente. Pensavo che è dal disordine che nasce il nuovo ordine. Non ne sono poi tanto sicura. Forse è quel disordine l’unico nuovo ordine? Gli anni passano. L’Italia vuole crescere¹. Scordare la guerra. Nel frattempo è finito anche il ‘59 ed è passato in volo radente anche il ’60. Messi insieme sembravano non voler finire mai. E mai avrei pensato di trovarmi ancora qui sempre più convinta che bisogna avere coraggio e non subire.

Vorrei non dover parlare di un altro amore, o di un amore altro. Sinceramente nemmeno di violenza. Ma non ci si può scegliere il mondo in cui si vive. Fino ad un certo punto nemmeno il modo di vivere. E io scopro di giorno in giorno chi sono. E cosa mi sta intorno. E in fondo quella di mio padre, le sue botte, è solo piccola violenza. E non mi può piegare. Non è nemmeno violenza a pensarci bene. Vorrei che almeno si accorgesse di me, non solo per alzare le sue mani. Non mi sembra una parola poi tanto strana il rispetto. Ho paura. Non di lui. Di me perché forse io non so amare. Non penso più a Pucci. Non ci ho mai pensato tranne nel vederlo. Sospetto che non sia quello il vero amore. E quelle di casa sono solo schermaglie. Fuori la gente muore per davvero. Ma poi c’è quel ragazzo. E’ stato solo un incontro fugace. Lo ricordo appena. Non sa nulla di me. Per un attimo m’è battuto il cuore. Una cosa stranissima. M’è sembrato di capire quello che veramente volevo.
Più cresco e più capisco quanto è difficile crescere. Intanto, come dicevo, è finito l’anno delle indipendenze, l’anno delle libertà.² Cosa mi aspetta? In America è diventato presidente uno giovane e anche carino. Ha una strana faccia da ragazzino. Con un gran ciuffo. Mi piacciono i ragazzi col ciuffo. Questo non c’entra. Non mi sono mai fidata dell’America, già da quando giocavo con Ernesto. Quel Presidente si chiama John e abbreviano il suo nome in JFK. Dicono che sia democratico e che tenga per i neri. Non so proprio bene cosa vuole dire quell’ essere democratico ma, ovviamente, pure io tengo per i neri. Non capisco certe puntualizzazioni. Nero o bianco che differenza fa? Che a dirla tutta mica hanno scelto loro di essere americani. E nemmeno gli americano sono i veri americani. Prima c’erano gli indiani, cioè i pellerossa. Insomma se continuo di questo passo finisco solo per fare confusione. Intanto lo terrò d’occhio, magari è capace che fa qualcosa di buono.
Mica dev’essere semplice la vita di quei neri in America, per esempio non si possono chiamare negri perché si offendono. E i bianchi li chiamano negri di continuo e anche li picchiano, e gli bruciano le case, e li impiccano agli alberi, e lo fanno vestiti come dei fantasmi. Che ridicolo modo di nascondersi. La cosa sarebbe buffa se non fosse tragica, se non fosse che giocano a sentirsi superiori, ‘sti cretini. Ma superiori perché? Dicono che i neri non sono come noi, che non hanno i nostri diritti perché non sono intelligenti e istruiti. Bella forza, non li lasciano frequentare le scuole. E poi meno intelligenti di quei quattro ominidi mascherati da fantasmi col cappuccio a punta? Anche questi vengono abbreviati così KKK. Sembra che l’America sia il paese delle abbreviazioni. Si vede che c’hanno fretta. Gli Stati Uniti si chiamano anche USA e chiamano la Russia: URSS. Basta farci il callo. Tanto in fondo io ho deciso e sono per gli indiani, Non per quelli dell’India, per quelli dell’America, per i pellerossa. E un poco per i russi.
Mi sembra che abbiano due braccia e due gambe anche loro, gli americani di colore. E una testa per pensare. Forse non hanno l’anima. Ma per me di quella si può fare senza. Ma ce l’hanno l’anima, poi, gli altri,pssia quelli senza colore? Intanto quelli colorati corrono come il vento. E hanno anche la musica nel sangue e a me piace la loro musica. La musica mi fa sentire viva. E dice le cose che vorrei dire. E mi racconta cose del tutto nuove. Comunque per i neri è dura. Vengono presi a botte se entrano nelle scuole dei bianchi e non possono nemmeno mangiare nelle mense, e ancora non possono prendere gli autobus frequentati dai bianchi. Ma dico io che senso ha? Che poi sapete una cosa? A me dà fastidio che li dipingano così incapaci. Faccio un esempio: Via col vento. Nel film la Mamy, che sarebbe poi la domestica nera, lavora come un mulo e parla come una mentecatta, sgranando due occhioni grandi e neri. Dico io: dovessimo fidarci di questi personaggi, staremmo freschi. Mi sa che mica ce la raccontano giusta.
Sia chiaro che i nordisti hanno fatto benissimo a dare una sistemata al Sud, mica si può sopportare che altri esseri umani diventino schiavi. La guerra è sempre una cosa brutta ma forse quando ci vuole ci vuole. E poi non è quasi guerra quando serve a liberare un popolo, a dare la libertà. Se c’ero io, sai che casino avrei fatto! Anche se una nera con i capelli rossi non l’ho ancora mai vista. Secondo me, avere degli schiavi è una dimostrazione di grande inciviltà. Solo in America succedono certe cose, o almeno credo. Non è che poi l’America mi piaccia proprio troppo. Ma forse s’era capito. E non servirebbe continuare a dirlo.
Come affermavo, io odio la guerra. Almeno odio quella guerra fatta con le bombe, i cannoni e i fucili. Quella che fa un sacco di morti e di prigionieri. Per non parlare poi dei campi di sterminio, che per fortuna li hanno chiusi. E pensare che gli ebrei non avevano nemmeno la pelle nera. Vai a capire gli uomini. Sono molto più stupidi di quello che sembrano. Insomma odio la guerra, e sinceramente sono molto spaventata di quella che tutti chiamano la guerra fredda. Non che quella calda mi sembri meglio.
Ho cercato di capire. Non è una guerra che si fa d’inverno, ma è un braccio di ferro tra USA e URSS. Tutti le chiamano Grandi Potenze e purtroppo sono anche quelle che hanno le bombe atomiche. Dicono che ci sia un bottone rosso in qualche posto in America, e uno in un altro posto nascosto in Russia. Che potrebbero far scoppiare il mondo. A volte è proprio difficile dire chi ha ragione. Metti che uno si sbagli e prema il bottone e che l’altro spaventato prema anche il suo, sai che polpette? Metti che la donna delle pulizie lo schiacci distrattamente spolverando. O che qualcuno ci appoggi il gomito sopra per sostenere il peso delle idee pensanti. Meglio buttarla in ridereperché vorrei evitare qualsiasi volgarità.
Tempo fa ho visto un film che forse voleva solo essere comico, dove un uomo che si era trovato, casualmente, nella zona dove avevano fatto scoppiare una bomba atomica, andava in giro di notte e faceva luce. Era luminoso e caldo come un tizzone acceso. Come si fa a scherzare su una cosa simile? Io non voglio finire così. E neanche voglio che diventi rosso e bollente il mio fratellino; ha diritto di crescere e farsi un’idea del mondo che lo circonda, pure lui. Non se lo meriterebbe nemmeno Ernesto anche se crede nella scienza e nel progresso americano come se non sapesse usare di suo il cervello. Anche se lui è un caso irrecuperabile. Io vado cauta. Adesso alla notte non sogno solo gli aerei che sganciano le bombe, ma vedo anche che quelle che scoppiano fanno un grande fumo a forma di fungo velenoso. Bastasse questo sogno invece vedo anche uomini vestiti in bianco come i fantasmi e con il cappuccio a punta che spargono dei semi che scoppiano e diffondono le radiazioni e con esse le peggiori malattie. Non mi ricordo di altri sogni prima. E questi non sono sogni da bambina, ne sono sicura. Non sono sogni, sono incubi.
Mi chiedo perché nessuno ferma questa follia. Ma a chi giova sporcare così il mondo? C’è un fine all’idiozia umana? Temo di no e mi sembra strano di essere la sola che ci pensa. Ma non arrivano mai questi benedetti ventuno anni? Se crescessi come le pagine di questo diario ne dovrei aspettare ancora solo tre. Ma sono comunque lunghi tre anni. Sono comunque 153 settimane, 1.095 giorni, 26.280 ore; senza contare i minuti. Sono un’ eternità. E tutto questo conto per niente perché invece sono solo dieci e ci manca ancora un bel po’.
Il giornale dice, ma è il giornale che non si dovrebbe leggere e per questo lo leggo con più attenzione, ma lo leggo di nascosto, all’edicola, dicevo che il giornale dice che in un posto lontano che si chiama Congo hanno ucciso un uomo Patrice Lumumba. C’è un sacco di mondo che ancora non so che c’è. Ovvero che non so dove sta. Penso a cosa sarebbe se non avessero ancora inventato gli atlanti. Appena divento grande voglio girarlo tutto e conoscerlo tutto. Anche Lumumba è un uomo di colore, ha la faccia intelligente e di un uomo giusto. Sembra una brava persona e i pochi che lo sonoscono ne parlano così. Ne parlano in pochi forse proprio perché anche lui è di colore. E’ un mondo che decisamente sta cambiando e ho i miei dubbi che stia cambiando in meglio. Mi scrivo queste cose a futura memoria perché se devo diventare stupida come questi grandi almeno potrò ricordare. Sembra che a crescere non faccia per niente bene. Ma io non mi piegherò. Non mi piegherò mai. Non diventerò come loro. E non sarò mai servo; cioè serva.
E’ un tempo strano. Persino il sole nasconde la faccia. Sembra farlo per la vergogna. E’ la mia prima eclissi solare. E la vedo per la strada mentre vado a scuola. Che stupidi, nessuno mi ha detto che aprivano, proprio per questo, la scuola più tardi. E mi sono trovata in strada. Spaventata e a disagio. La luce che si cambiava in un verde vomito. Sembrava un brutto sogno. Sembrava che la vita stesse scappando. La strada era vuota e mi sentivo sola, molto sola. Chissà se ne vedrò altre. E’ proprio una cosa insolita. In tutta la mia vita, giuro, è proprio la prima. Vedere il giorno trasformarsi in notte, cioè vedere farsi buio di mattina, dà davvero una strana sensazione. E’ come se nel petto mi fosse precipitato il cuore. Una leggera vertigine con senso di soffocamento. Tutto questo dovrebbe ricordarci quanto siamo piccoli e soli al mondo. Io piccola, un po’ di più di altri ma solo per la mia età. Fossi un maschio gliela farei vedere. Poi penso a mio fratello: è più grande, e maschio; avrebbe bisogno di occhi per vedere e anche di coraggio che non ha. Ma si sa che la stupidità non ha sesso né età.


1] Il 15 novembre 1960 la televisione italiana inizia a trasmettere Non è mai troppo tardi, corso di alfabetizzazione per adulti.
2] Nel 1960 molti paesi africani ottengono l’indipendenza. Il colonialismo si avvia verso la sua fine. Farà posto al neocolonialismo.

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Per esempio

In Anima libera on 14 marzo 2011 at 13:59

Disegno colorato sulla libertà di informazione: volto di donna fatto di natizie di giornale con bavaglio sulla bocca

Premessa alla parte sedicesima
Era come una fame. Avevo una voglia irrefrenabile di conoscere. Leggevo tutto. Tutto quello che mi passava per le mani. Mi sembrava che solo attraverso le parole potevo crescere. L’informazione è tutto ma non tutto è informazione. Meglio qualche volta diffidare. Perché non tutto è vero e spesso non c’è una sola verità. E non siamo tutti uguali. Volevo crescere ma non sapevo bene a cosa andavo incontro. Per crescere sono cresciuta e, nel frattempo, ho perso un sacco di cose. Che rabbia. Pensi di acquisire sempre e continuamente dati e di immagazzinare informazioni e non ti accorgi che tutto questo va a scapito della conoscenza naturale delle cose, dell’istinto e della preveggenza. E poi qualcosa anche lo dimentichi, magari poco. E’ triste, si allungano le gambe e le braccia, cominci a prendere le forme che sono destinate al tuo sesso, formuli il tuo cervello nella modalità utile alla vita sociale mentre lasci per strada la tua bussola originale, il tuo coraggio primordiale e le tue idee esplosive, che nessun ostacolo osava fermare. Ma che cazzo mi aspetta al di là delle pastoie di questa mia stupida infanzia? Non ci posso credere… ho perduto la strada e non vedo nemmeno più la luce dal culo del buio.

Chi lo dice che durante l’infanzia si pensa poco e ci si diverte tanto? E’ una baggianata. Una leggenda. Una corbelleria per nascondere che è proprio in questo momento della vita dove si formano le basi della propria filosofia. Sì! va beh, a rigor di logica non dovrei sapere cos’è la filosofia. E tante altre cose. Ma io le so e basta. E anche se non ne conosci il nome, è proprio in questo momento storico della tua vita che i pensieri percorrono i sentieri del sapere e del sentire e dimenticando se stessi si elevano a pensiero puro. Cazzo! sto correndo il rischio di prendermi sul serio.
Inutile raccontare i fatti. Solo i fatti. Unicamente i fatti, nudi e crudi. L’esperienza della scuola, i rapporti con chi ti sta intorno, la fatica della famiglia sono solo appendici esterne. Capire come affronterai il futuro è invece un esercizio che, seppur non avulso dalla realtà contingente, dovrebbe almeno tener conto di ben altri elementi. E poi c’è quella persona che corre dentro di te. Che ha sete. Che ha voglia di vedere. Il piccolo esploratore; della vita e dei sentimenti. Sarà stupido ma c’è pure il piacere di tenere il Piccoletto in braccio. Piccole e grandi soddisfazione. E piccoli ed enormi dubbi.
Innanzi tutto, pensare è l’esercizio più scandaloso che mi riesce di fare. Non appena gli adulti se ne rendono conto, mi guardano con sospetto. I bambini, invece, pensano solo che sono umorale ed estrosa. E il pensiero è bello, leggero, illuminante, ma allo stesso tempo mi imprigiona alle responsabilità. E’ mia la responsabilità di cambiare il mondo, me ne rendo conto, visto che ci sto pensando da sempre. E’ mia la lotta che ogni giorno mi aspetta. Ma come si fa a cambiare il mondo? Da dove cominciare? Quello è nato così com’è: rotondo. Certo bisogna sovvertire le idee dal principio, ma… cavolo se è dura!
Facciamo un esempio: le suore pensano che ballare il rock-and-roll sia peccato. Sapete la musica americana, quella di Elvis, per dire? Ecco, chi glielo leva dalla testa che ascoltare quella musica non ti fa peccare, ma mette solo in fibrillazione le gambe, le braccia e lo stomaco? Sarò io ma penso abbiano uno strano concetto di peccato. E poi: chi è senza peccato… insomma quella cosa lì. Ché il peccato è l’anima del commercio. Insomma mai ho sentito che muoversi a tempo di musica sia una faccenda diabolica. Ammesso e concesso che il diavolo esista e non sia solo una favoletta per tenere buoni i bambini e gli adulti creduloni.
In effetti penso che anche mia mamma non ci creda troppo, non che non sia credulona, è solo che lei vive in un mondo che si adatta alla realtà. Insomma più che credere fideisticamente (che parolone mi escono) in qualche cosa, cerca di non scontrarsi con forze avverse. Per dire: mi manda a messa solo perché altrimenti potrei scontrarmi con le ire divine. Una sorta di atto scaramantico. Meglio non attirare l’attenzione. Profilo basso; questa è la sua filosofia. Mentre mio padre fa il dittatore. Troppo facile con una come lei. Lui è incapace di percepire la sua tristezza e delusione e gli fa comodo non tenerne conto. Per lui esistono solo le funzioni prestabilite. La maschere e i ruoli.
Con mia madre gli riesce bene, è con me che si accorge che il gioco si fa duro. Le sta provando tutte, ma non ne funziona nessuna. Più si intestardisce a cercare di sottomettermi e più gli scappo di mano. Scuote la testa senza crederci. Eppure sono una femmina e sarebbe il mio destino ubbidire. Col cavolo che ci sto. O cede lui oppure scappo di casa, anche se questo vorrebbe dire lasciare il piccoletto, indifeso, in quelle mani inconsapevoli. Lui me lo dice sempre: “Sorellina, io sto con te, qualsiasi cosa succeda!” Sono fiera di lui. Azz… non posso portarlo con me se scappo, altrimenti non posso più essere libera di patire la fame e gli stenti, perché se scappo non so proprio dove andare, neanche il nonno mi potrebbe aiutare. La clandestinità non è un bel gioco.
Comunque la fuga è non responsabilità. Fuggire vuol dire rinunciare a tentare di cambiare il tuo mondo, non solo quello degli altri, cioè quello di tutti, ed è soprattutto questo “altro” mondo che serve cambiare. Ecco appunto, quello che volevo dire è che da piccoli piccoli si è più liberi dai legami, dalle responsabilità. O almeno dovrebbe essere. Poi cresci e pensi al tuo fratellino e alla tua mamma che hanno bisogno del tuo aiuto e non sei più libera di niente. Si nasce soli in mezzo a tanta gente e subito il tuo cordone ombelicale cerca di legarsi agli altri. Fossi nata incapace di amare sarei nata libera ed invece ho già un’anima prigioniera. Nella prigione degli affetti.
Per esempio: Elena, l’informatrice, se ne è andata. Problemi di famiglia. Ho perso un’amica e ci sto male. Ci penso spesso. Non ci siamo quasi salutate. Come se ci dovessimo vedere domani. Non ci siamo neppure dette che ci saremmo scritte qualche lettera. Non ci abbiamo pensato o forse per il suo carattere ogni promessa è un’inutile bugia. Eppure io so che esiste l’amicizia e che è un sentimento simile all’amore e che può resistere nel tempo. Io so voler bene e so anche sacrificarmi per amicizia e per amore, ma… come fare per non essere saccheggiati? Perché questa sofferenza?
Più penso agli altri e più mi faccio coinvolgere dagli eventi. Altro esempio è Angela. Lei viene dal sud. Ossia la sua famiglia è meridionale, invece lei è nata qui. Spesso prima di rientrare dopo la scuola ci fermiamo a giocare insieme nel cortile di un vecchio palazzo dove l’erba cresce tra le crepe della pavimentazione. Ci leviamo il grembiule e mettiamo la cartella attaccata alle maniglie di un portone. Non mi piace molto giocare con lei perché pretende sempre di fare lo stesso gioco ripetitivo e sinceramente in quel gioco non mi sento a mio agio. E’ come se volesse fare un gioco da grandi e fosse un gioco che io mi vergogno di giocare. Avrò anche perso tutto l’istinto primordiale di un tempo, però certe cose le percepisco ancora bene.
Angela vuole fare il cavallo, anzi per dirla tutta vuole essere un cavallo femmina, ed io nel suo gioco devo essere il suo padrone crudele che lo frusta e lo tormenta nei modi più terribili. A parte il fatto che odio fare il padrone crudele, ma non trovo senso a questo gioco. Le ho chiesto ragione: “Perché vuoi fare il cavallo torturato e non vuoi fare mai tu il padrone?” e lei con quell’aria da cane bastonato mi risponde: “Non è la stessa cosa, fare il padrone non mi piace…” Comincio a chiedermi se non è più facile, e normale, e meglio, uccidere il padrone. Non la capisco proprio.
Vuoi vedere che ho trovato l’unica al mondo che vuol farsi angariare gratis? Che si diverte ad essere impastoiata e sottomessa? Certo che i gusti sono gusti, ma io non ci sto a stare a quel gioco e in genere la faccio incavolare perché tiro fuori la mia pistola e metto fine alle sue sofferenze sparandole alla testa. Ma non si fa così se un cavallo soffre? E se ci penso ho dei dubbi: è lei o sono io. Nella non ribellione di mia madre non c’è anche questo? E in tante donne? Non voglio ingoiare niente solo per la sfiga di essere donna. Io non mi sento donna; non quella donna. E non sono nata solo per soffrire. Non mi piace il dolore. Né nessuna sofferenza.
Il suo è un comportamento strano o almeno così sembra a me. Io parlo della mia famiglia. Racconto di Ernesto che è il fratello dal comportamento più ridicolo del circondario. Talmente strano che davanti alla tivù distoglie lo sguardo quando entrano ballerine in calzamaglia. Deve essere una colpa terribile guardare le gemelle Kessler ballare il “dadaumpa” in calzamaglia nera. Vero è che tutta l’Italia si ferma nei bar a guardarle a bocca aperta. Non capisco la bocca aperta ma nemmeno la sua vergogna. Strano mondo quello che mi circonda. Comunque io racconto senza problemi della mia vita, delle prodezze del piccoletto e anche di mio padre tiranno e anche manesco. Lei tace e mi guarda stranita, dice che anche suo padre è manesco, ma che comunque le vuole molto bene. E c’è sempre quel pudore nella sua voce.
La cosa l’ho capita il giorno dopo della consegna delle pagelle. Quella di Angela era piuttosto bruttina, ma non era la prima volta. Così il giorno seguente è venuta a scuola con un occhio nero e un livido rosso sotto l’altra guancia. Nemmeno questo capitava per la prima volta. Alle suore ha raccontato che era caduta. Mica ci voleva un genio per capire che era caduta sulle mani di suo padre. Io, se fossi stata l’insegnante, avrei preteso che venisse accompagnata a scuola, da quel bel padre affettuoso. E glielo avrei fatto capire con le buone e, se non ci riuscivo, anche con le cattive che ad Angela non doveva toccarla nemmeno con un dito. La cosa più strana era che lei sembrava contenta di portare sul suo corpo quei segni, che poi non si fermavano certo a quelli sulla faccia, come fossero medaglie. Accettare supinamente tutto questo mi pare una barbarie. E uno stupidario. Ma mi rendo sempre più conto che per cambiare il mondo devo trovare altra gente che la pensa come me .E devo anche cercare di aprire gli occhi di chi non vede. Ma è proprio un lavoraccio cambiare il mondo.
Però non capisco proprio chi ama far del male, come non mi piace per niente chi ama farsi fare del male. Chi non si ribella. Chi non reagisce. E’ un rapporto sbagliato, proprio malato. In tutto questo c’è qualcosa che non torna e che non comprendo fino in fondo. Marella, con la sua voce da rospo, mi ha detto che Angela ha una famiglia proprio disgraziata. Lei abita nella casa di fronte e queste cose le sa e le vede dalla finestra. Dice che il padre grida sempre ed è svelto con le mani. Ma che pretende anche che Angela stia seduta a mangiare sulle sue ginocchia. Intanto la strizza tra abbracci e manate. La cosa ci pare brutta anche perché Angela è grande, anche se non ha ancora un corpo di donna. Forse è così, un po’ più sviluppata, perché meridionale e mangia sempre tanta pasta?
Le cose si vedono quando si vogliono vedere. Che ne so? Non so se si può morire anche di troppo amore. Una cosa però la so: solo a pensarci mi sembra assurdo e ridicolo. Perché mangiare scomodi in due? Se fosse per mio padre mi manderebbe a dormire quando si mette a tavola. Non ama molto vedere il mio sguardo di sfida ogni volta che tratta mia madre come una serva. Sa che finiamo per discutere e preferirebbe starsene in pace. Se non fosse che per darmele mio padre non mi toccherebbe mai. E se devo essere sincera preferisco così. Se devo dirla tutta preferisco che il potere resti potere. E’ più facile combattere il tiranno quand’è solo tiranno. Non ho mai potuto riconoscere in lui un gesto di affetto e allora, se proprio deve essere, che sia solo guerra.

Le balle dell’informazione

In Anima libera on 2 marzo 2011 at 21:27

Foto del condannato a morte Caryl ChessmanPremessa alla parte quindicesima
M’era rimasto in bocca solo un leggero senso di disagio. Non ho nulla da rimproverarmi. C’è sempre un momento di riscatto. Forse pretendo troppo. Non mi sono mai fidata troppo di me. Sono sempre stata critica con la bambina. Ma c’è solo un grande bisogno di conoscere. E di riconoscere. Parlare di tradimento è esagerato. Ed esistono anni che riesci a capire il mondo solo con un’occhiata, e altri che quello che annusi nell’aria non basta più. Hai bisogno di dati, di informazioni, Elena è troppo superficiale. Lei ha pure troppa fantasia. Lei ne sa di tutto e se non sa inventa. Non è un buon metodo per sentirsi preparati, anche se nemmeno il mio funziona sempre. L’informazione è effimera. Oggi lo sai e domani dimentichi e tutto finisce in fumo. E i giornali raccontano solo una verità da giornale. E’ così che si capisce che crescere è consapevolezza. E che niente è facile.

A volte succede come ai bambini piccoli. Chiedono a ruota libera, i perché di questo o di quello, e alla fine non ascoltano la risposta, oppure la risposta non gli basta e continuano a chiedere: “…e perchééééé”? Anche a me succede così. Guardo la televisione e mi pongo un sacco di domande. Un po’ come “lascia o raddoppia?”, ma quello è solo un vecchio programma televisivo. Domande alle quali non so rispondere. Le poche cose le so dai quotidiani che porta a casa papà. Sì! proprio quelli delle balle da riscaldamento. Chi dà tutti quei giornali a mio padre non l’ho ancora capito. Noi ci mettiamo in bagno come in un gioco, che non mi pare un gioco. Tutti intorno e li immergiamo nella vasca colma d’acqua finché si inzuppano. Li strizziamo bene fino straziare le parole. Fino a farci dolere le dita. Fino a farne sfere perfettamente rotonde per metterli poi ad asciugare. D’inverno, nella stufa, bruciano a meraviglia. Ma prima, qua e là, mi cade l’occhio. E allora divoro le notizie con voracità. Ma forse questa è una curiosità legata a quest’età; per tutti. Non lo so. So solo che ho bisogno di sapere.
Siamo già nel 1960. Il tempo corre. Ormai sono vecchia o almeno così mi sento. Ma si può? nascere anche troppo bambina e diventare vecchia senza passare per il tempo delle irresponsabilità? della cazzate giustificate? del divertimento? In effetti è vero, essere impegnati è faticoso, a volte può essere una noia mortale. Vuoi mettere Elena, per esempio, lei è il disimpegno fatto donna, o quello che è. Anche nell’amicizia non è seria, passa di amica in amica senza badare né alle motivazioni né alla consistenza del rapporto, anzi più leggero e disimpegnato è meglio ci si trova. Lei non è per le cose per tutta la vita. Forse è giusto così. Solo che sono nata di un’altra pasta. Mica ci posso far nulla.
Sia chiaro io non sono moralista e non pretendo dagli altri l’impossibile, però, se gli altri li giustifico sempre, o quasi, da me stessa pretendo sempre qualcosa di più. Tutto sommato accetto anche l’inadeguatezza dei miei, non si può essere esigente oltre e alla fine li giustifico, perché non dev’essere facile avere una figlia come me. E nemmeno è facile essere adulti. E genitori. Certo non gliel’ha ordinato il medico. Direi che non ci sanno fare. Io sono nata con un gene nuovo e deviato che non so ancora bene cos’è. Non riesco ad accettare quello che mi circonda così e punto. Non riesco a non farmi delle domande complesse anche sulle banalità. Non riesco a trovare risposte semplificando, devo puntigliosamente andare al nocciolo del problema e mica sempre ci arrivo, anzi ci arrivo ma ci sono altre domande che mi aspettano e mica sempre trovo le risposte. E soprattutto non riesco a non provare l’istinto di cercare di cambiare le cose. Quello che non va.
L’ingiustizia mi fa star male. Solo che… insomma… essere così seria e analizzatrice mi sta anche trasformando in una pallosa prima della classe. E a pensarci mi viene da vomitare. Così decido di abbandonare i risultati scolastici e di dedicarmi di più alla vita. Alla gente che mi circonda e all’informazione che traggo da tre fonti: Elena, sempre meno credibile; la televisione, che ai miei occhi comincia a diventare poco attendibile, e la stampa che a casa mia si trasforma come detto velocemente in combustibile. La parole saranno anche di piombo ma le notizie vanno presto in fumo. Ho bisogno di sentirmi viva. Partecipe; non so a cosa. Dentro la realtà. Il mondo gira e non riesco a stare ferma. Ho l’argento vivo addosso.
Vediamo i fatti. Con Elena parlo del modo di comportarsi degli adulti e delle tendenze di noi ragazzine. Dopo i suoi primi accenni su come fare un bambino, abbiamo deciso di informarci sull’Enciclopedia che ha a casa sua. E sulle riviste dello zio di Elena che poi non è vero zio, me l’ha confessato un pomeriggio mentre le facevo matematica. In realtà avevo capito che qualcosa di strano c’era; non sono così sprovveduta. Anche se sono poco interessata alle parentele, io. Ma lei ci teneva che sapessi che invece era un amico di sua mamma e che non dovevo dirlo a nessuno. Capirai a chi può interessare. Ma contenta lei…
Ce la siamo letta tutta per poter arrivare agli “organi riproduttivi”, alla “gravidanza”, al “pene” e alla “vagina”; nomi che suonano non tanto impronunciabili quanto strani. Dai disegni non si capisce di più. Allora completiamo lo studio nelle riviste dello “zio” e ci facciamo una vera cultura. Gli uomini o ce l’hanno piccolo e triste oppure molto grande e pure incazzato, insomma… quel coso che pende. Ho dei sospetti. Quella robetta di Ernesto che lo fa nascondere dietro le porte non può servire ad altro che a farci la pipì. Bastava dire che i bambini escono come la pipì. Quando mi trovo sola controllo sotto la mia pancia. Forse col tempo cresce e si allarga. Come le tette. Resto scettica. Dal buco delle donne è impossibile che esca la testa e le spalle di un bambino… Chi può credere in una simile sciocchezza? Vuoi vedere che anche l’enciclopedia racconta balle!
La televisione mi dà poco anche perché mica sempre vedo il telegiornale. A quell’ora ceniamo e la televisione non sta in cucina. Se entrasse lei noi dovremmo restare fuori, è troppo grande. Solo il nonno è un valido mezzo di informazione, da lui ascolto sempre il Radiosera e mi spiega i fatti che succedono e mi fa anche capire che le guerre sono sempre orrore e che qualche volta però è giusto farle, per esempio quelle che si chiamano rivoluzioni. Se non fosse stato per il nonno come avrei potuto sapere dei fatti dell’Ungheria, o dei minatori di Marcinelle, certo che morire così è proprio una brutta morte, e non è giusto, o delle proteste dei mezzadri? Ma dai nonni ci vado così poco, adesso che c’è l’affare della scuola. Tanto che di Pucci, il mio fidanzato che porta il latte, non mi ricordo quasi più il sorriso. Chissà se lui mi pensa?
Però i giornali sono un bello spunto. Innanzi tutto sono diversi e non dicono mai le stesse cose. Hanno titoloni che fanno capire cosa scrivono poi in piccolo sotto. Così se vuoi ti fai un’informazione titolata e varia, frettolosamente, e poi puoi immaginare, con un po’ di fantasia, il contenuto. Oppure fai come le testedure e ti leggi tutto l’articolo prima di metterlo a mollo e annegarlo. A me piacerebbe proprio fare quel lavoro. Scrivere le notizie. Dire alla gente cosa succede. Deve essere affascinante. Cambio troppo spesso di idea: prima il prete, poi il cosmonauta? ma credo che questa sia la mia scelta definitiva. Da grande vorrei fare la giornalista. O la maestra? La verità è che sono anche terrorizzata dai temporali perché mi ricordano la guerra. A volte i fatti, anche i più lontani, ti entrano dentro; ti cambiano la vita. Mi capita di avere incubi nel sonno con aerei nel cielo che fanno cadere le bombe. Anche se la guerra io non l’ho mai vista. Ho forse bisogno di un esorcista? Una benedizione particolare con l’acqua di Lourdes? Mi fa paura la morte in ogni sua forma.
Dalle pagine dei giornali, per esempio, vengo a sapere che hanno fatto il Governo Tambroni. Non mi è tutto chiaro, anzi niente. Cos’è un governo? Perché è così importante? Già il nome non promette bene. Sembra quello di un farmaco contro la tosse. Mi fa sentire nell’aria il ronzio di insetti e di pallettoni di fucile. Sarà solo un pregiudizio? Ma il fatto che più mi prende è la prossima esecuzione della condanna a morte di Caryl Chessman. Innanzitutto lui si dice innocente, e poi non ci sono delle vere prove della sua colpevolezza, ma pazienza questo: colpevole o no io sono contraria alla pena di morte e basta. Non dico che chi compie un reato deve stare libero, anzi penso che deve essere adeguatamente punito. Gli si deve insegnare che la cosa che ha fatto è davvero brutta e sbagliata e che non doveva farla, e quando l’ha capito puoi farlo uscire e controllarlo se fa il bravo. Ma quella della pena di morte è una vera barbarie. Se tu uccidi quello che uccide allora sei come lui. Se il delinquente che ha ucciso lo giudichi e lo condanni a morte chi giudicherà il condannatore che provocherà la sua morte? A me sembra una cosa stupida da grandi. Come dicevo: non sarebbe meglio tentare di recuperare queste persone e insegnargli ad essere migliori?
A scuola ci scrivo pure un tema, ma le suore non sono preparate sull’argomento. E quando mai. Chiamano mamma per sconsigliarla di farmi partecipare alle discussioni politiche in casa. Lei non ci capisce un’acca. Discussioni politiche in casa non se ne sono mai fatte, e poi lei ha sempre votato democristiano. Come le aveva detto anche il parroco. Sarebbe giustificato un sospetto, ma dal nonno è un bel pezzo che non vado. Da chi imparo ad essere ribelle? Se la prenderebbe anche con Elena, ma ormai si è trasferita in un’altra città (mamma, finto zio e riviste appresso, ma lei di zio e riviste non sa, senno sai che lagna). Non le resta che mettermi sotto interrogatorio. Non le resta che arrendersi. Ha il sospetto che io abbia una testa mia. Non sa a che santo votarsi. Come sempre si rifugia nell’autorità di mio padre. Lui nemmeno sta a sentire, mi stampa uno sculaccione rovente su una chiappa.
Non le capisco proprio le suorine. Dovrebbero essere le messaggere della pietà. Quelle buone. Mi sarei aspettata di trovarle d’accordo, solidali. Invocare il sacro valore della vita. Invece… il mondo lo capisco ancora meno. E poi si sa come sono, i genitori, quando non sanno più che pensare dei loro figli, pensano male degli altri. Sono gli altri a rovinare le loro magnifiche creature. Devo dire che mamma comunque è più realista. Sono sempre stata una figlia strana, con dei tratti diabolici. Questo per lei. Sono una delle tante cose che non riesce a capire; e non si da troppo pena per farlo. Capisco troppo velocemente le cose e non mi accontento delle storie che calmano gli altri bambini. E’ questo il mio male e la sua disgrazia. Spesso si chiede che colpe ha commesso; come se tutto dipendesse da lei. Alla fine se ne lava le mani.
Quell’uomo è dentro quella cella da tanti anni che non può essere lo stesso uomo. Deve essere terribile stare tanti anni prigionieri di un buco. Vivere soli con la propria paura. La trovo una barbarie. La pena di morte, voglio dire. Se ho capito bene ha scritto anche un libro. So che stanno preparando una manifestazione. Andranno tutti in campo con una candela accesa. A pregare. E sperare che il governatore, all’ultimo, ancora una volta, alzi il telefono; rimandi l’esecuzione. So che mio padre non mi lascerà. E’ di sera e comunque lui sa solo dire di no. Sono amareggiata. Mi sembra di avere un appuntamento con la storia; col mio futuro; a cui non posso mancare. Fosse qui almeno il nonno. Sono incazzata. Spero che quella storia mi aspetti. Forse per lei sono ancora troppo giovane. Forse mi vedrebbe ancora bambina. Vorrei andarci ugualmente. Così, quando provo ad insistere per uscire con la mia candela accesa la sera dell’esecuzione, i miei mi mandano a letto senza cena e mio padre mi dà pure uno scappellotto grugnendo: “Attenta, piccola…”.
Sia chiaro: attenti a voi a chiamarmi piccola con quel tono di voce, potrei mordervi il naso senza pietà. Quando sibila quella frase, “Attenta, piccola”, per lui è una sorta di dichiarazione di guerra. So che poi parte con gli scappellotti. Ma io non so starmi attenta. Parliamo lingue diverse, io e lui. Non può mettermi paura. Come è noto a tutti Caryl è andato sulla sedia elettrica. Secondo me quell’uomo era già morto fin troppe volte. Tambroni ha fatto sparare sui braccianti ed è rimasto ancora al governo, non per troppo tempo; quanto basta a provocare morti e feriti. I grandi sono proprio pazzi. Lo sostituirà Fanfani. Un nano e io dei nani diffido… Mi sembra che gli manchi sempre qualcosa. E che siano sempre incazzati. Queste cose mi rendono rabbiosa, cattiva. L’Italia è in fiamme. Sono troppo arrabbiata persino per parlare. Anche a me manca qualcosa: il fiato per gridare abbastanza forte: “Assassini”!!!

Passare al nemico

In Anima libera on 16 febbraio 2011 at 17:08

Immagine a colori di pinguiniPremessa alla parte quattordicesima
Tu vivi sempre arruffata come un gatto a graffiare e poi caschi nella banalità, solo per colpa di uno stupido disegno. Insomma la vita è bizzarra. Sei distratta davanti ai suoi tranelli. E a volte le sue trame non le puoi prevedere. Insomma non era solo un disegno, per la verità, era qualcosa di più… ma questo comunque non voleva dire che ero passata al nemico. Era stato tutto un equivoco. Io mi ci ero divertita, ma poi lui mi aveva davvero risposto. Ecco come si fa a diventare una star senza averne la benché minima voglia. E poi a tacerlo perché non ne andavo certo fiera.

Quest’anno è stato l’anno dei Papi. Come si fa a fuggirne in una scuola privata tenuta dal guanto di ferro di suore con l’aria di angioletti spiumati? Io coi Papi non ho mai voluto averci niente a che fare. Mica che per colpa della loro santità, rischiavano di finire per graziarmi e farmi diventare una ragazzina per bene. Certo la comunione l’ho fatta e mica convinta. Elena mi ha detto: “Dai, non rompere, mangiati la cialda e beccati i regali.” La sua è una filosofia del tutto opportunista. E molto spiccia. Io qualche principio ce l’ho ancora, sempre, però… un pensiero lo faccio, maledetta ingenuità, mica butto via i regali per la mia prima comunione, no? Ma se il cielo ti casca in testa
Eppure lo so, quando cerco di adattarmi, nascono sempre casini. Mamma vuol far la sua bella figura e mi addobba come Santa Rita da Cascia, con un fioccone bianco che sembro una bomboniera, più un veletto minimalista in testa. Una mascherata che me la ricorderò finché vivo, so che ne proverò vergogna per sempre. Con la gonna poi ci faranno la zanzariera alla culla del piccolo; la guarda interdetto, e non sa bene se piangere o ridere. Qui si riusa tutto. Le gonne della comunione, ma anche i giornali che porta a casa papà. Mica per leggerli, come si potrebbe pensare. No! si buttano nella vasca da bagno e si appallottolano in balle di cartapesta.
Povera informazione che si usa solo per farla finire praticamente in fumo. Nel frattempo, prima o durante le palle, ci do una letta e imparo molte cose. Le palle si devono asciugare al sole e poi conservare in soffitta. D’inverno le notizie scaldano la nostra vita. E d’altra parte, per loro, a cos’altro servono? Mamma legge a stento qualche rotocalco di passaggio: Oggi o Gente, e qualche volta ci fa sopra qualche lacrimuccia. Esempio: Soraya, l’imperatrice triste. Quella bella, ma che non aveva bambini. Ah che dolore! Che poi il marito le ha dato il benservito e se n’è presa un’altra. Mamma su queste cose ci riflette pure: “Meglio senza bambini e senza marito oppure tanti bambini e un marito?” Se è per me una risposta la darei subito. Certo i bambini mi piacciono, ma i mariti… insomma meglio farne a meno, sarei più contenta. Sospetto che lei si commuova solo per i mariti e i bambini delle altre.
Insomma, questo è un anno proprio pieno di giorni. Insomma, andiamo avanti, faccio la comunione, vergognandomi come una ladra e loro mi regalano un libricino di preghiere, un rosario e una penna stilografica di madreperla bianca. Non ci posso credere. E io avrei barattato per questo la mia dignità? E’ una fregatura madornale. Così imparo. Mai più contro i miei principi per presunti interessi personali. Non ne vale proprio la pena. Meglio restare la solita bambina che dice sempre No! Ché poi la verità è che non ho potuto scegliere. Non me l’hanno lasciato fare. Mi sento ancora tradita. Costretta. Quella dei regali era solo una pillola. Un modo di rendermi da sola meno amaro il boccone. Era una ragione dove una ragione mica la trovavo.
Intanto muore un Papa e se ne fa un altro. Solita stupida abitudine. Che poi tutti e due sono stati patriarchi della mia città. Cioè i due di cui mi tocca di parlare. Che poi patriarca sembra che valga qualcosina di più degli altri, perché li fanno Papi come piovesse. Per le suorine è di grande orgoglio. A me non frega niente. Tra l’altro sono contraria all’infallibilità del Papa. Non è giusto: Che è, un raccomandato? A me certe garanzie non me le hanno mai date. Qualsiasi cosa faccio sono certa di sbagliare. O almeno un po’ lo penso io e un tanto me lo fanno credere. Comunque sembra che gli unici infallibili siano loro. Ma l’hanno studiata la storia? Io la leggo dai libri di Ernesto che non parlano quasi mai di Papi che hanno fatto qualcosa di giusto. Sembra che preferivano le armi alla preghiera. Ma tanto è inutile rivangare. Intanto parte il nuovo papa e torna quello vecchio. Sì perché il nuovo va a Roma a prendere il seggio, Mentre quello che è morto si fa portare indietro per vedere per l’ultima volta la “sua” città.
Le suore sono impazzite. Già che durante l’anno non ci stanno con la testa, per questa incredibile e imprevista occasione organizzano un coro per riceverlo. Sì, perché dalle suore non manca mai la festa con lo spettacolo e il coro di voci più o meno bianche. Io la voce ce l’ho bianca, ma Marella no. Lei parla e canta come se avesse un rospo dentro alla gola. E’ bellissima la sua voce. A dirla tutta parla come uno scaricatore del porto, che qui in città ce ne sono tanti e berciano in modo particolare, sacramentando qua e la. Marella è pure carina, ma fa parte delle sfigate e non la apprezzano mai per le sue strane qualità. A me capita che essendo troppo avanti nello studio, non sappiano come farmi impegnare il mio tempo. Allora scoprono le mie capacità canore e mi mandano a lezione dal vecchio maestro del coro. Ah ah ah ah ah ah ah… giù e su per le scale musicali. Ogni pomeriggio una lezione che sinceramente è ben poco divertente. Ma la voce si rinforza, prende spazio, trova coraggio. Ora che il papa morto arriva in città le suore ci piazzano sulla scalinata di una chiesa, con le nostre divise bianche, il fiocco rosa e una bandierina papale in mano da sventolare¹. Io a dare il via ad una poetica ode a Roma: Salve, salve Roma/ la tua luce non tramonta/ vince l’odio e l’onta/ con l’ardor di tua beltà/ Roma degli Apostoli/ madre e guida delle genti/ Roma luce dei credenti/ il mondo spera in te.
Che baggianate. Già! meglio, molto il “Va pensiero…” e anche con quello segno l’inizio e conduco le voci alte. Marella conduce quelle basse, finché non perde l’appoggio al gradino della chiesa. E allora fa finire il coro nel precipizio della sua caduta. Che sarà mai? Non capisco perché le suore si incavolino. D’altra parte al papa basterà il pensiero; no? La vedo difficile che ascoltandoci si sia offeso per l’esecuzione. D’altra parte non siamo mica a Sanremo. E poi lui, a tutti gli effetti, non ci dovrebbe sentire, visto che è morto e pure da parecchio. Perché qui è venuto solo in spoglie.
Pare avesse detto: “O vivo o morto, tornerò”. Tornare c’è tornato. E morto tanto. C’era ancora la guerra quando è morto. Quella grande. Del 15 18. Non so perché hanno aspettato tanto. E non so nemmeno perché non se lo sono voluti proprio tenere. Da dove siamo non ho visto molto. Ho visto solo la confusione. Non so com’è da morto. Ma nemmeno so com’era da vivo. Io mica c’ero allora. E ora c’è troppa confusione. Ma forse un papa assomiglia a un papa. Comunque per tenere buone le pinguine ho pensato di mandare una lettera a quello nuovo² che si chiama Giovanni XXIIIesimo; corredata da un disegno della sua bella facciotta simpatica, bardata dai simboli del pontificato. Veramente da noi lo chiamano Nane-schedina o anche Nane due pareggi e tre vittorie in casa. Ma è meglio dirlo a bassa voce, si sa mai.
Non è una cosa seria, sia chiaro. Gli ho scritto come se fosse un mio amico e se avessimo giocato fino al giorno prima a pallone nel cortile sotto casa. Mi pare evidente che non aspetto risposta. E’ solo una cosa così. Senza pretese. Insomma una lettera che non mi sembra da tenere troppo in considerazione visto il tono e le modalità. Le suore stesse si sono chieste se fosse il caso di inviarla. Ma chissà, forse il papa, che a sentirle è Gesù in terra, mi avrebbe perdonato. E invece zacchete, come fa spesso il destino, che ti sorprende e ti nomina unta dal signore, il nuovo papa mi risponde. E mi risponde, a me personalmente, e mi parla un po’ parlando in papese, ma anche usando delle frasi più fraterne o paterne che divine.
La lettera me la leggono e me la fanno vedere da lontano e poi la incorniciano e la tengono come reliquia nella cappella del convento. Non ci capisco niente. Tutto sommato: che c’è di strano? io ho scritto una lettera e lui ha risposto. Questione di educazione no? Non capisco perché attorno a questa storia si forma tanto interesse. Le suore mi guardano con adorazione. Le mie compagne divise in due gruppi, mi guardano o con odio o con perplessità. Le belle figlie di Madama Dorè ovviamente con odio e le compagne proletarie invece, come se con questa lettera avessi fatto la mia consegna al nemico. Uffa! che difficile essere eletta a mito di qualcuno. Io non ci tengo. Sia chiaro io non ho mai sognato di finire su un santino, ma nemmeno di finire stampigliata su di una bandiera anche se rossa. Ma perché? lui ha il suo gregge. Io posso essere tutto tranne che pecora. E mi scappa un sonoro gran “Mavaffa”.


1] Papa Pio X: nel 1959 la venerata salma di S. Pio X ritorna a Venezia per mantenere la promessa.
2] Giovanni XXIII

La bambina dimenticata tra i fratelli

In Anima libera on 9 febbraio 2011 at 16:13

Premessa alla parte tredicesima
Essere nate con una missione, non vuol dire essere nate per stare sole. In effetti mi sentivo un po’ diversa dagli altri. Ma c’erano anche altri diversi, anche se in modo differente. Insomma, magari non è chiaro, ma con questa storia cercherò di spiegarlo. Intanto nemmeno per me è scontato cosa saprò fare della mia diversità. In pratica so di essere nata per cambiare il mondo con un gesto plateale, o magari con una idea geniale, o un’invenzione che non è mai venuta in mente a nessuno. E i tempi stanno diventando maturi. C’è in giro un’aria che non so spiegare. Intanto ho accettato di essere donna e so bene che non è per niente un affare. Dovrò metterci mano. Qualcosa cambierà.

Annabis dice sempre che lei è una proletaria perché ha un sacco di fratelli e sorelle. Non ha capito bene come funziona. E io, per colpa di un sospetto, non ho il cuore di spiegarle che si sbaglia. Proletari si è quando sei povero e hai solo un sacco di figli, mica quando sei ricco e hai un sacco di fratelli.
Ma Annabis è talmente fragile e delicata che, pure se ricca, l’ho presa sotto la mia ala protettrice. Lei è la numero undici. E dopo di lei ce ne sono ancora quattro. In tutto sarebbero quindici, ma per la verità sono rimasti in dodici, perché tre sono morti.
Lei lo racconta come se stesse facendo un compito di matematica. Dice anche che un anno sua madre non ha avuto il solito bambino, ma che l’anno dopo ne sono nati due: i gemelli.
Per fortuna che suo padre è spesso fuori per lavoro. Racconta che ai suoi genitori piace il nome Anna, ma siccome lo porta la sorella numero quattro, a lei è stato dato il nome di Annabis.
Elena, che la sa lunga, sussurra che i suoi si erano dimenticati di avere un’altra Anna in casa, e quando se ne sono accorti hanno pensato di chiamarla così. In effetti è questo anche il dubbio che ho io e a guardarla, così slavata ed eterea, mi è apparso subito chiaro, che la nostra Anna, è una bambina dimenticata in mezzo agli altri fratelli.
Lei di questo non si lagna mai. Se fossi in lei io mi farei riconoscere subito e metterei ben bene le cose in chiaro. Mica si fanno i figli così. Non è giusto dimenticarseli, sennò che senso ha?
Lei è ricca. Suo padre fa l’Ingegnere, che deve essere un lavoro importante. Sua madre va a teatro e ai concerti ed è forse per questo che non si occupa tanto dei figli.
In casa sua c’è una “tata” e una cuoca. Anche il mio fratellino mi chiama Tata, ma io sono sua sorella e anche se gli sto molto attenta, non per questo mi pagano uno stipendio. La loro “tata” invece mi sembra ancora più distratta dei suoi genitori. Così come la cuoca che non sa mai chi mangia e chi no. A casa loro ci sono i turni di pranzi e cene, ma come succede spesso, c’è chi mangia due volte e chi nessuna.
Annabis a casa mangia poco perché è timida. Non ha il coraggio di farsi largo nella confusione. Per fortuna, qui alla mensa, la metto a mangiare al mio fianco, così sto attenta che la madre cuciniera le faccia avere la sua minestra e spesso condivido con lei la mia pietanza, che porto ogni mattina da casa. Da lei non se lo ricordano mai e se lo fanno arriva con una carta di prosciutto o con un pezzo di formaggio francese. Chissà perché il formaggio francese puzza di più di quello italiano. Forse perché costa un sacco di soldi e arriva da così lontano?
Insomma Annabis è davvero una sagoma. Ha vestiti bellissimi, ma sempre scompagnati. Un giorno è arrivata con una gonna scozzese a pieghe, molto più grande della sua misura, e per tenerla su ha usato le bretelle di suo fratello numero otto. Però i suoi genitori hanno inventato un sistema fantastico, per non farli uscire con i calzini spaiati. Li comprano all’ingrosso e sono tutti uguali, a parte le dimensioni, e maschi e femmine si servono da un cestone comune.
A me piacerebbe avere un sacco di fratelli. Purché non assomiglino a Ernesto. Ma di quelli non ce ne può essere che uno. Dei suoi capisco poco, credo che pure lei non ci capisca molto. Elena dice sempre che Anna non ha “autostima” e lo dice con un’aria da grande professoressa. Non so ancora bene a cosa serva l’autostima, comunque io la tengo sempre per mano e la difendo quando le altre, le nostre compagne ricche, la chiamano traditrice.
Io lo so che a loro fa rabbia che si mescoli con noi, le paria della scuola. Nel loro immaginario, la figlia dell’Ingegnere non può fare amicizia con la figlia del ciabattino. Che poi a dirla tutta mio padre potrebbe sembrare un principe, altro che un ciabattino. Ma vallo dire a loro che misurano tutto in base ai soldi e ai vestiti.
Annabis è diversa, lei verrebbe volentieri a vivere in casa mia anche vestita come me, con i cappotti rigirati di mio fratello Ernesto e con le sue scarpe smesse.
Insomma Anna appartiene alla classe dei ricchi, ma ha il cuore in quella dei poveri ed è per questo che si sente in diritto di dire: “Sono anche io una proletaria!”
Annabis ha subito delle pressioni, quasi delle minacce. Le hanno spiegato che lei non può tradire se stessa. Che non può mescolarsi con quelle come noi.
Indosso la mia maschera da dura. Durante la mensa passo dalle parti di Gabriella e le verso dall’alto l’acqua nella zuppa. Gli schizzi le macchiano tutto il grembiule candido. Mi pulisco le mani sul suo fiocco rosa e sussurro con voce chiara: “Se le succede qualcosa dovrai vedertela con noi”.
Prevenire è meglio che curare. E glielo dico convinta. Lei mi guarda e non sa che dire. Che paurosa! Abbassa gli occhi e vede il disastro sulla sua divisa e non riesce che a scoppiare a piangere. Le macchie si lavano; non c’è detersivo per la dignità.
Annabis è tanto ricca che una volta, tutta la classe, è stata invitata nella sua casa di campagna. Abbiamo preso un pullman con la supervisione delle suore e abbiamo passato una giornata in giro per la grande fattoria.
All’ora di pranzo noi abbiamo mangiato dei panini sedute sull’erba, mentre le suore si sono chiuse in casa. Elena, che è la solita, ha scoperto dove stavano mangiando e ci ha portato a spiarle. Sosteneva che le suore mangiano in modo diverso dagli altri ed è per quello che si nascondono. Io le ho risposto che è matta, perché ho anch’io una zia suora e mangia a tavola con noi, anche se il velo le dà un grande fastidio.
Io ho passato un pomeriggio assieme ai suoi cavalli. Per me i cavalli sono gli animali più belli ed intelligenti che esistano. Io credo di essere stata un cavallo, in una vita precedente. Mi fanno pensare alla libertà e alla disobbedienza. Basta non farsi mettere la sella e il morso. Basta non farsi domare. E poi è così bello correre.
Prima di ripartire Annabis ci ha portato a vedere una grande casa, chiamata fienile, piena di balle di fieno e noi eravamo così scatenate che le abbiamo praticamente disfatte tutte e ci buttavamo dall’alto dentro quel mare di fieno sciolto sotto di noi. Anna ha cominciato a piangere e a singhiozzare senza respiro. Ci siamo preoccupate e messe subito calme, ma non era disperata, aveva solo una crisi d’asma dovuta alla polvere. Povera bambina, nemmeno lì in campagna si può divertire.
Mi sarei aspettata di essere presa, con le altre, per un orecchio. Ma le suore hanno pensato ovviamente, un modo diverso di farci espiare, ci hanno fatto recitare una sfilza di AveMarie per tutto il ritorno, minacciandoci tutti i fulmini dell’inferno.
Possibile che sia peccato tutto quello che piace di più? A me sembra una cavolata, Però mi dispiace per Anna.
Il mio affetto per lei mi ha fatto rivedere certe mie idee rivoluzionarie. C’è gente, anche fra chi ha soldi, che ha bisogno di essere aiutata a trovare la propria strada. E che ha umiltà. Pochi, certo. Casi pressoché disperati. Non so se è politicamente corretto, ma… Insomma quando farò la rivoluzione e andrò alle manifestazioni, passerò per casa sua, la prenderò per mano e la farò uscire e crescere senza avere paura.
In fin dei conti non può essere che lotta di popolo. E anche lei è popolo. E poi può sempre servire una serpe un seno al nemico. Sapere come la pensa l’avversario. E’ tutto così più difficile di quello che pensavo all’inizio. Riscattare la gente che non sa che essere servo. Liberare chi non è mai stato libero. Chi ha bisogno di sentirsi dire chi è. Possibile che sia così difficile capire che si nasce tutti senza padroni?

Proletarie in mutande unitevi!

In Anima libera on 31 gennaio 2011 at 0:09

Premessa alla parte dodicesima
E’ assolutamente proibito farmi fuorviare dalle cose che mi succedono attorno. Mi accorgo che la vita è fatta di diversivi e disinnesca le mie ragioni con mille piccoli fatti che mi tengono occupata. Dovrei essere una bambina che gioca con le bambole e a mamma-casetta, invece indosso la tuta spaziale dei Cosmonauti russi, parlo di rivoluzione al mio fratellino appena nato, e contesto il sistema. Tutta colpa di quella maledetta scuola privata di monache pretenziose. Tutta colpa di quelle ragazzine ricche e con la puzza sotto il naso. Non sono una di loro. Io sono contro e forse non sono neppure la sola.

Mi viene quasi rabbia a raccontarla. E’ come se l’avessi già detta. O se qualcuno avesse fatto la spia. Piccoli dubbi in una breve vita. Note a margine. Comunque è proprio vero che il diavolo fa le pentole e anche le padelle… cioè quella cosa lì. Basta avere pazienza e dare al tempo il suo tempo. La frutta cade quando è matura. E io ho imparato ad aspettare. Non molto, mamma mi dice che son curiosa come una scimmia, ma un po’.
A scuola il mio profitto è da sempre molto più alto della media, mica perché studio, no, quella è un’abitudine che nessuno incoraggia né incoraggerà mai, ma proprio perché sono curiosa. Anche i difetti possono essere virtù. Curiosa e percettiva e intuitiva, e apprendo fin troppo in fretta. Questo fa la differenza, anche se dà una noia mortale per tutto il tempo perso tra i banchi di scuola. Andare bene a scuola ha infatti le sue controindicazioni. Ne farei volentieri a meno, ma a volte si nasce così e così si deve morire. Come quella dei tondi e dei quadrati. Forse è questo posto a trasformarmi in una sorta di intellettuale. Ed è una cosa di me che non sopporterei.
Il mio vizio peggiore è che vengo da una famiglia proletaria. Mia madre chissà cosa pensa di ottenere? Fa i salti mortali per mantenermi in quella privata. Solo chi ha frequentato una scuola di suore può dire quanto possano essere piene di pregiudizi, le “madri”. E quanto ti feriscano dentro. Nell’orgoglio. Innanzi tutto odiano la povertà. Cosa per niente secondaria. Credo che negli anni di noviziato, e dopo aver vestito gli abiti da pinguino, si siano un po’ alla volta dimenticate delle loro origini. E di quel povero cristo. Insomma non è facile frequentare da povera una scuola di ricche. E nella mia classe si sente l’odore dei soldi aleggiare tra i banchi. Anche se non tutti i soldi sono come gli altri. E quelli di qualcuno sono solo a chiacchiere.
Non che come me non ce ne siano altre di ragazzine senza possibilità. Sono una parte consistente. Sembra un punto d’orgoglio, per i poveri, mescolare le proprie figlie con le rampolle di un’altra classe sociale. Anche se assieme ci stiamo come i cavoli a merenda. Bastasse quel vago disagio di sentirsi diverse e anche ragionevolmente inferiori, sembra che le suore amino vederci in contrapposizione e prediligano far vincere le meglio vestite. Stavolta ci hanno organizzate in due gruppi a contendersi il primato dei voti e delle lodi e degli attestati, a suon di punti qualità concessi con benevolenza dall’insegnante. E ogni fine settimana scolastica viene tirato il conto. I Carbonari questa settimana hanno raggiunto il punteggio di 18 mentre i Garibaldini ne hanno guadagnati 24. Quindi oltre alla beffa si deve pure concedere l’onore delle armi: un battimano molto sportivo. Ma l’applauso è niente in confronto dall’ingiustizia della disparità. Tra i Carbonari militano le figlie del popolo, che in genere non brillano né in preparazione né in bellezza. Sembrano rassegnate al loro stato di vittime e di donne. Prive di speranza. Di possibilità di riscatto. Dall’altra parte ci sono le belle figlie di Madama Doré. Biondi capelli puliti e grembiulini impeccabili e immacolati. Le suore indiscutibilmente parteggiano per loro, le belle bambine che non si sporcano le mani.
Di mio non ho mai avuto spirito di competizione. Nemmeno con i maschi funziona. Sia chiaro le mani le lavo spesso, ma non c’è niente da fare, sembrano passate nella polvere delle cantine frequentate dai veri Carbonari. Con le mani vivo. Le mani di Gabriella invece sono angeliche, come lo sono i suoi biondi boccoli trattenuti dal nastro rosa. Gabriella è la più smorfiosa tra le figlie di papà, anche se abita nelle case popolari vicino alla scuola. Ma non sono qui per parlare di mani. Che poi ci sono quelle che rubano per mangiare e quelle che ti rubano la vita. Lei dice che suo padre ha una banca e la cosa non mi è chiara per niente. Avesse detto un banco allora avrei potuto anche capire. Pure io a scuola ne ho uno e pure mio papà, che fa il ciabattino anche se ha l’aspetto di un principe, ma una banca… Per la verità non so nemmeno cosa sia una banca. Credo sia dove si fanno i soldi ma mi irrito perché li danno a pochi; se li danno solo tra loro. In fondo devono essere stati loro ad inventare la fame. E i poveri. Se dessero a tutti il necessario finirebbero i poveri.
La guerra tra le due fazioni è naturale e congenita, tra l’altro è anche alimentata dall’atteggiamento e dalle esigenze scolastiche. Il loro atteggiamento sprezzante me le fa proprio girare. Un po’ di orgoglio mi ribolle dentro. I loro libri hanno belle copertine colorate persino a fine anno, i nostri sono pieni di orecchie, di macchie e di ditate di inchiostro. Tutto sommato è una guerra destinata a non fare prigionieri. Ma più ci penso e più preparo il momento della scontro. A quel momento bisogna arrivare organizzate e grintose. Nessuno potrà competere con le “proletarie in grembiule”; unghie sporche e occhi lividi di riscatto. Segno distintivo almeno una macchia d’inchiostro sui polpastrelli delle mani. In fin dei conti cosa sarebbero loro senza di noi? Come farebbero a sembrare belle se non avessero un termine di paragone?
Poi viene il giorno della recita. Come odio quell’esibizione di vanità infantile. Ma ogni scuola di suore che si rispetti questo passaggio non può mancarlo mai. Se ne fa vanto. Si può morir di fame e di stenti tutto l’anno, ma la recita, con le vettovaglie fornite dai genitori, resta un classico. Quest’anno il tema è libero. I due gruppi devono presentare un pezzo di teatro senza la supervisione della suora di musica. E brave le “sorelle”, stavolta l’hanno fatta grossa. Come al solito le suorine non hanno capito il potenziale della cosa, se ci avessero pensato mi avrebbero esonerato subito dall’organizzazione. Non è una gara. E’ lotta di classe.
Improvvisamente mi chiedo: perché le altre guardano sempre me e aspettano? Va bene che sono la più alta, e che anche i ragazzini mi guardano con timore, ma questo fa sentire a disagio. Non amo mettermi in mostra. Ma so di doverlo fare. Quando ci vuole… Un po’ alla volta mi sento a mio agio proprio come il cacio sui maccheroni. Col mio gruppo scalcagnato metto giù un’opera da due soldi, in maschera, cambiando le parole alle canzonette più in voga. E inventando una serie di situazioni comiche e sconclusionate per mettere in risalto il nostro potenziale. Il surreale della povertà contro l’ottusità della ricchezza. Il cuore contro il rimmel.
La cosa è così entusiasmante che le mie proletarie col fiocco rosa, ci mettono il carico. Si danno da fare. Non si risparmiano. Il risultato diventa inventiva allo stato pure, una tempesta di idee, che sconvolge la loro vita silenziosa e marginale. Comincio ad essere fiera di me. Alla fine siamo pronte, abbiamo tutto, tranne un dettaglio non secondario: le maschere. Certo di soldi non ne abbiamo, e i nostri genitori non ne spenderanno per una cavolata simile. Mica hanno idea che ne va del nostro spirito e coscienza di classe. Non ci abbattiamo per così poco. Ovviamente decidiamo di adattarci con la tecnica del riuso di abiti vecchi e colorando mascherine di carta. E’ lo spirito quello che conta. Il messaggio.
Gabriella e le ricche compagne spiano da lontano il nostro faticare. Ci guardano perplesse. Dall’alto. Sicure di sé. Come fossimo misere cose. Poverette, il loro spettacolo è una stucchevole parodia di bambole imbecilli intorno ad una bambola regina. Disegna un mondo che non esiste. Che hanno visto per televisione. O letto in qualche favola per menti limitate. La favola della principessa Sissi senza il finale triste. Quella di Cenerentola senza Cenerentola. E senza il principe. Certo che però i loro di abiti ci fanno strabuzzare gli occhi tra tulle e crinoline. Noi di cose così, non  ne abbiamo viste mai.
Subdolamente elogio il loro lavoro. Imparo l’arte del mentire. E lo faccio anche attraverso Anna. E a parole celebro la bellezza dei loro abiti. E il buon gusto. Insinuo, se mai ce ne fosse ulteriore bisogno, il veleno della vanità. Insomma alla fine le bionde bambole, ci degnano della loro elemosina e ci prestano una serie di vestiti in maschera smessi. Questo gesto le fa sentire più buone e ancora più brave, e ricche. E a me fa venire la pelle d’oca; la bava verde. Non amo per niente essere oggetto di pietà e ricevere una carità ipocrita. La carità è l’autoassoluzione dei ricchi e la condanna per i poveri. Ma per le mie compagne sopporterei anche di peggio. E poi gusto, già, la nostra… vendetta.
E’ così che accettiamo e il giorno dello spettacolo io mi trovo dentro un vestito da arlecchino della stessa Gabriella che è un sogno. Anche altre mie compagne hanno vestiti fatti solo per il carnevale. Le restanti fanno buon viso a cattivo gioco. Sono le popolane. Ma per tutte c’è un ruolo. Una parte. Una speranza. E tutte si sentono finalmente protagoniste. E siamo emozionate. E orgogliose di noi. Aspettando il nostro momento. Sicure. Guardando lo spettacolo delle Bambole che, come prometteva, finisce con una sfilata di abiti dagli effetti speciali. Sul contenuto lasciamo stare, nemmeno i genitori più affezionati possono dire di averci capito qualche cosa. E’ tutto in quel battere di ciglia. Nell’attesa del principe che non arriva. Che non le bacia e le lascia addormentate. E’ tutto in quel profumo intenso che sa di rose, ma di rose appassite. Il loro mondo è falso. E’ moribondo.
Certo non posso essere tranquilla, ma sembra che quello che facciamo invece piaccia. Anzi… scrosciano risate e applausi. Noi, le simpatiche mascherine rabberciate, cantanti e capriolanti sulla pedana del teatrino, abbiamo un successo di pubblico inaspettato. Da non crederci. Non c’è partigianeria. Le proletarie in maschera hanno finalmente il loro momento di gloria. Mia mamma ha occhi da non credere. Tiene mio fratello sulle ginocchia. Ha anche lei uno scatto d’orgoglio. Sembra dire a tutti è mia figlia. E non c’è un genitore che non mostri soddisfazione. Già! i grandi non capiscono. La credono solo una recita. Per me potrebbe anche bastare. Invece come sempre chi ha soldi mal sopporta anzi odia essere superato da chi non li ha e li sostituisce con la testa. Pertanto la dolce Gabriella, con l’aria da ragazzina viziata qual è, mentre siamo ancora sul palco si avvicina e mi sputa addosso il suo disprezzo: “Ridammi il mio vestito da Arlecchino. Te l’ho prestato io, e lo rivoglio indietro perché non vorrei che me lo sporcassi col tuo sudiciume”.
Nessuno può sentirla; la vipera; la scema. Negli occhi ha una furia e un disprezzo che la tradiscono. Che le tolgono anche quella falsa immagine da… carina. Ah… ma allora vuoi guerra! In realtà non è nemmeno bella. E’ come quelle bambole… senza cuore e senza anima. E una bambola non può essere bella. Proprio perché è solo una bambola vuota. Ma anche lei è una vittima. Non è solo Gabriella, è quel mondo falso, vuoto, invidioso. E’ il mondo dell’apparenza. Non ci metto un attimo. In scena, davanti ad una platea esterefatta, mi levo, senza metterci tanta cura, la maschera prestata restando in canottiera, mutande e calzini non proprio puliti. Faccio un bel fagotto dell’abito e lo getto contro la faccia trionfante della Regina delle Cretine. E sono troppo gasata per sentirmi in imbarazzo. E poi chi se ne frega. Meglio in mutande che nuda, anche se non farebbe ormai molta differenza. A questo punto improvviso: “Mi sò arlechin batocio, orbo de ‘na recia e sordo de un ocio, so puaretto e so modesto ma de fondo sò un omo onesto, no gò pan da magnar ma gò voja de lavorar. Anche se vestìo de niente, sò simpatico ala gente. No me serve tanti ori per burlarme dei signori. Ora vado che xe ora anche in barba a ‘sta signora. Vado via saludo i tanti che fa mucio qua davanti. La mutanda la xe mia e nessun me la porta via…”
Dal pubblico divertito sale un’ovazione. Sembra una situazione messa su apposta. Le suore sconvolte non sanno come prenderla. Tanto meno sanno come fermare le altre maschere che prese dalla follia del momento si spogliano in palco lanciando i vestiti sul pubblico. Ah! che gioia la vittoria. Le mie proletarie in mutande marciano verso il futuro incuranti di tutto. E le suore sono sopraffatte dall’entusiasmo del pubblico. Sanno che la cosa non è tollerabile e capiscono che la devono accettare. Sorridono e i loro sorrisi tirati sembrano quasi sinceri. Accettano i complimenti, come se ne avessero un qualche merito. So che comunque mia madre, che intanto s’è fatta piccola, verrà chiamata dalla suora direttrice. Non me ne importa un fico secco.
A volte vale la pena di vivere per certe soddisfazioni. E sono altrettanto entusiasta della soddisfazione delle mie compagne. Che ho dovuto frenare. Fosse stato per loro avrei corso il rischio di vederle togliersi anche quelle mutande. Mi inchino ma mi sento in paradiso. Sì! a volte le piccole cose ti fanno star bene; sperare in un futuro migliore. In un mondo diverso. Certamente non la passerò liscia: la superiora sta già tampinando, come previsto, mia madre che col piccolo in braccio tenta di evitarla. Chissà cosa le vuole dire? Pazienza: Parigi val bene una messa. Da lontano vedo il piccolo che si dimena e che comincia a gridare: “Sorellina, sei un fenomeno. Adesso ti libero io di queste due”. Dopo tutto, come me, gli piace proprio poco il nero. Guarda la suora superiora e non la guarda benevolmente. Poi dice la sua prima frase completa che passerà alla storia nel lessico famigliare dei rossi della mia famiglia: “Va via, tu… butta. E cativa”!

Il nuovo incombe

In Anima libera on 21 gennaio 2011 at 14:27

Premessa alla parte undicesima
Avrei dovuto avvertire di preparare i fazzoletti, ma la vita singhiozza le sue storie a sorpresa, mica avverte. Ricominciamo. Dove siamo arrivati? Io sto lì ad organizzarmi le cose, per rendere il percorso meno accidentato ed invece gli altri mi lasciano all’oscuro dei fatti più normali. Certo che esistono gli altri bambini ad informarti, ma le notizie qualche volta arrivano travisate. Non tutti i bambini sanno di quello che parlano. Insomma essere bambini non garantisce nulla, tanto meno l’informazione. I grandi si son fatti questo mondo su misura per loro. Si tengono quel briciolo di sapere e quel sapere è loro. E’ il potere.

Io credo di essere una bambina cattiva. Cattiva per l’idea che hanno gli altri di una bambina. Questo lo capisco da come mi guardano quegli altri: adulti o bambini che siano. A me, sinceramente non sembra. Certo non sono facile e neppure mi accontento, ma non rompo mai per uno stupido capriccio, non piango mai per ragioni cretine, e davanti agli altri modero pure i termini. Che poi questa è la cosa più difficile da fare. Di fronte a certa gente un fanculo ci sta proprio tutto. E’ l’unica soluzione. Però non dico parolacce a vanvera. C’è sempre un buon motivo per andare giù duro. Insomma dico parolacce del tutto giustificate. Contestualizzate.
Coi bambini miei coetanei, per esempio, cerco se possibile di evitarle per non fare da cattiva maestra. E’ una grossa responsabilità. Magari insegno altre cose che i grandi considerano terribili, ma non le parolacce. Quasi sempre ci resto di sasso quanto smoccolano loro, molto più di me. In classe mia, per esempio, c’è Elena, l’unica amichetta che non mi dà il voltastomaco. Lei ha solo la madre che fa la pittrice. Mica dipinge le pareti delle case ovviamente, lei dipinge i quadri. Proprio per questo motivo mio padre insiste nel dire che è poco seria e che non dovrei frequentare la figlia. Veramente non ho mai visto sua madre ridere come una scema. Mi sembra sempre piuttosto seria; e composta. Anche Elena non ride, ma quando smoccola va fortissima e fa ridere me. Diciamo che proprio per questo a volte mi sento poco seria, ma non mi pare una cosa troppo importante.
Elena è anche una grande fonte di informazioni, sapete quelle informazioni che a casa non ti danno mai; ecco, lei sembra un’enciclopedia. Sarà che fa lunghi viaggi con sua mamma ed un vecchio zio. Girando il mondo s’impara, io lo so, ed è per questo che è la più attendibile degli informatori. A mia madre cresce la pancia, si è decisa di mettere in cantiere uno dei rossi che avevo a suo tempo preannunciato. Io lo so, che sarà rosso, lei ancora no. Sapete com’è, a volte dici le cose così, perché sei arrabbiata, ma non puoi mica essere sicura che tutto vada come pensi tu. Insomma mi sta arrivando fra capo e collo un nuovo fratellino e io incrocio le dita perché sia di quel colore e del tipo che prediligo.
Insomma lo dico a Elena che con l’aria furbetta mi risponde: “Allora tuo papà e tua mamma ci hanno dato dentro? L’hanno fatto?” “In che senso?” faccio io. Lei mi guarda con quell’aria superiore che prende ogni volta che sgancia una bomba e scoppia a ridere: “Vuol dire che si sono dati da fare!” Mi comincia a venire il mal di testa e aspetto la bomba successiva “Non mi dirai che non sai niente di come nascono i bambini? Insomma non sai a cosa serve il coso che entra nella cosa e che serve a fare i bambini? Non sai proprio niente”! Non ne sapevo niente. Il coso? Quale coso? E la cosa? Ma di che cosa si sta parlando? Io pensavo che i bambini fossero una cosa naturale e che crescessero nella pancia della mamma. Aver scoperto così che invece era colpa di un… coso mi dava il capogiro. Ma allora come funzionava la cosa?
Elena non ha mai avuto papà, da quel che so solo un vecchio zio, e probabilmente la sua mamma aveva usato un coso speciale e si era data da fare o ci aveva dato dentro in un altro modo che i miei genitori. L’affare si ingarbuglia. “Ma lo sai come si chiama il coso?” mi fa, quasi con rabbia. E aggiunge: “Pennello! E sai come si chiama la cosa? Patatina. E sai come si usano?” Eh no cazzo, una cosa alla volta per piacere. Lasciami riordinare le co… le informazioni. Tra pennelli e patatine c’è da diventare matti. Ho le idee tutte in subbuglio. E la testa mi scoppia. E’ forse proprio per quello che sua mamma, che era brava con i pennelli, è riuscita a fare un bambino senza bisogno di un papà? Elena mi ha reso curiosa. A lei piace quando sa una cosa che non so, o crede di saperla. Lei mi dice le cose e io le faccio la matematica. Ma non c’è sempre da crederle però.
Prendo tempo e aspetto il momento opportuno. Mica può tutto la scuola. A volte le risposte sono dove meno te le aspetti. Ma le ulteriori informazioni che prendo da mia mamma non servono a chiarire la questione. Lei a sentirmi nominare il pennello si fa rossa in viso. “Ma che stai a dire? I bambini nascono dai semini che hai dentro alla pancia, e crescono quando… quando è il tempo che lo facciano”. A questo punto tanto valeva che mi raccontasse la storia dei bambini che nascono sotto i cavoli. Io ho bisogno di sapere; di vedere. Non sono una che crede alla prima cosa… cioè stupidaggine che viene detta. Non mi è chiaro perché, ma i grandi amano raccontarti delle storie fasulle, delle favole, imbrogliarti. Deve far parte del loro modo di essere grandi. Di tenerti in scacco. Forse li fa sentire furbi. E importanti. Io so e tu non puoi capire. Ma chi l’ha detto che io non posso capire? E poi siete voi a mettermi gli ostacoli davanti, mica io a non capire.
Me ne vado con quella risposta e tutto mi sembra ancora più confuso. Ci gioco con la fantasia; non costa nulla; e rido. Così intanto, a tempo perso, penso ai miei di semini. E provo persino un po’ di apprensione. So che è una cosa stupida. Che l’ha detto tanto per dire. Era distratta e guardava da un’altra parte. Come se non le interessasse nulla. Tanto per farmi star buona. Persino la sua voce suonava estranea. Ma… non faranno mica gli stupidi? Non voglio diventare madre così giovane. Ci sarà pure un modo per evitarlo, no? Insomma non mi fregheranno mica? Ci sarà pure un sistema per non farli maturare? Mica che nascere donna ti frega solo per un cambio di stagione? Insomma… non mi sento ancora pronta.
Penso alle parole del ragazzino in campagna e ho un curioso sospetto.  C’entra qualche cosa? E’ come un’intuizione, ma troppo nebulosa per  poterla afferrare. In ogni caso, e per ogni eventualità decido di tenerli lontani, i maschi. Intanto comincio a farmi rispettare, almeno a scuola, anche se lì c’è solo Leone. Da quando gli ho rotto il naso; naturalmente dietro la porta del bagno, mi sta alla larga. Come al solito non voleva capire, che ho diritto alla mia privacy. Lui è andato a piangere e mi ha chiamato la Madre Superiora. Ma lui non ha avuto coraggio di chiarire davanti alle suore. Ha ritrattato e ha detto che è scivolato. Ma hanno chiamato ugualmente mia mamma. E ti pareva!
Intanto il semino di mio fratello doveva essere grande e grosso perché le cresce una grande pancia e continua a crescere che lei sembra fare fatica persino a camminare e a muoversi. Torno da scuola nel tardo pomeriggio e mia mamma ha sfornato un vitellino di più di quattro chili. Proprio un vitellino, dicono. Non una seppiolina come hanno detto di me. Son proprio strani i grandi. Danno sempre un nome a tutto. E intanto lui nasce con il sorriso stampato in faccia. Mi dicono che quattro chili sono tanti. Le fanno i complimenti come avesse fatto una cosa eccezionale. Magari lo è. Non è che capisco bene perché. A me onestamente sembra piccolo e indifeso.
Ecco il mio nuovo fratellino, che è tutto mio, visto che ha quel colore di capelli e che sembra prediligere il suono della mia voce. Cominciano ad esserci troppi maschi in famiglia ma con questo sarà diverso, ho ben altri progetti per lui. Se non fosse che odio le canzonette stupide, che danno alla radio, in onore suo canterei anche la divina commedia. Credo che questa sia la felicità.
Mamma gli fa i versi più incomprensibili. Gli muove le mani davanti agli occhi. Naturalmente lo tratta come un mentecatto. Non si capiscono e questo è normale. Non gli sa parlare né riesce ad afferrare quello che lui cerca di dirle. Lo guardo e guardo la mamma. Lo guardo e so che dovrò fargli da madre. Non c’è speranza. Lei, con quegli occhi cheti, farebbe solo gli stessi sbagli che ha fatto con me. Non è adatta a fare da madre. Non è combattiva abbastanza. Si sono già visti i risultati con Ernesto. Io ho dovuto arrangiarmi da sola. Se aspettavo lei sarei solo una bambola ridicola che deve solo sorridere e fare le smorfie.
Beh! certo a dirla tra noi la mia è una grossa rivincita. Il vecchio Ernesto è veramente abbacchiato. Un nuovo fratello, maschio, rosso di capelli a cui si è dato anche il mio nome. Al maschile s’intende. Babbo non lo guarda con sospetto, ormai si è rassegnato, o è solo perché si è fatto l’occhio vedendo i miei di capelli. In realtà lo guarda poco. Non è una novità. Non dovrebbe essere orgoglioso? Io lo sono, perché lui no? Anche mia mamma questo bambino proprio non se l’aspettava. Lo so perché, mentre le cresceva la pancia, l’ho vista piangere di nascosto. Probabilmente aveva già abbastanza da fare con noi due e poi quel mio padre che le consegna sempre un carico di tensione che non si leva mai. Io le sussurro: “Non ti preoccupare, me ne occuperò io”.
Presto il piccoletto, già al suo posto nella culla e ben nutrito dalle poppe di mamma, incomincia a parlarmi. Sono davvero meravigliata dalle tette delle donne. Non cresceranno mica anche a me due cose così? Due meloni pieni di latte? Credo proprio che non mi sentirei a mio agio. E non le voglio, almeno per ora. Non saprei che farmene.
Insomma lui, il neonato, mi parla e non fa ancora discorsi troppo impegnati, anche se, tutto sommato, mi sembra abbastanza logico che chieda del suo mondo. Primariamente s’informa di come stanno le cose. Chiede notizie più precise di mamma e papà. Domanda se può contare su una certa disponibilità economica. Poi mi chiede di Ernesto: “Ma è davvero nostro fratello?” Io non posso nasconderglielo e sono costretta a rispondere al povero piccolo: “Sì, va beh, ma non è poi così pericoloso”. Lui mi esorta già consapevole: “Stammi attenta sorellina, perché di lui non mi fido troppo”. Comincio a temere che Ernesto sganci, non visto, qualche pizzicotto sotto le copertine. Sarebbe cosa da lui. Ma se me ne accorgo, se la dovrà vedere con me e brutta, il degenere.
Tutti dovranno vedersela con me, perché è mio, anche se per ora nessuno lo sa. Lo annuso. E’ una curiosità. Con la storia dei cosi, e dei semini, mi sono fatta dei pregiudizi. Odora normalmente, sa di saponetta e di latte e di quello che si fa addosso, perchè su questo non sa ancora controllarsi.  Ma imparerà. Mi tranquillizzo: non odora di prezzemolo né di alcunché d’altro di strano e pericoloso. La storia dei semi deve essere la storia più cretina mai inventata. Mai visto bambini nascere dalle piante.
Certo che le domande del nuovo mi hanno messo un po’ in agitazione. Ma perché chiedere se abbiamo una certa disponibilità economica? Si vuole giocarsi a poker i nostri risparmi? Certo che ha un musetto simpatico, ma si può pensare che quel sorrisino nasconda un’aria da biscazziere e baro? Così, casualmente m’informo: “Sai per caso giocare a carte?” lui risponde ridacchiando: “No, solo a scacchi!” e la cosa mi rilassa. Non me lo sarei aspettata ma… gli scacchi sono un gioco da intellettuali; mica si può barare giocando a scacchi. Oppure mi sbaglio?

Fanculo!

In Anima libera on 14 gennaio 2011 at 14:24

Premessa alla parte decima.
Sembrerebbe impossibile anche a me che una bambina così… così piccola possa portare dei ricordi. Invece ho già dei ricordi. Anche più grandi di me. In cui nascondermi. Da cui fuggire. E a volte i ricordi fanno male. Soprattutto quando stai per fare cinque anni, come allora. Perché non ne ho parlato? Proprio per quel male. O per rispetto di Maria. E di ogni Maria e di ogni sofferenza. E poi non lo so. Forse perché non amo perdere. E il dolore è sempre una sconfitta. E non mi è mai piaciuto arrendermi. Questo lo so e lo sapete. Sono una testarda ficcanaso della vita. E alla fine la amo troppo, la vita. E non so accettare. Ora sono passati un paio d’anni ma ancora mi riesce difficile raccontare. Perché non c’è una logica, né una ragione. Perché l’unica certezza è la conferma che non esiste nessun dio. E’ stato allora che ho capito che da certe storie si può anche non uscire più.

Piangersi addosso è una missione che non mi riesce proprio. Mai stata brava a lagnarmi. Non che abbia una salute proprio di ferro. Ma basta non abbattersi. Non prendersi troppo sul serio. Cosa sarà mai un po’ di tosse, due linee di febbre. Qualche giorno d’asilo che manca dal calendario. Nessuno ci farà caso, né sentirà la mia mancanza. Invece arriva il medico. Il vecchio medico di famiglia che girava per le case come un padre e sembrava solo un buon padre di famiglia perché sapeva di tutto un po’ e nulla di tutto. Più che altro si limitava a dare buoni consigli. Così mi guarda e mi ausculta. Cosa ausculta non lo so. So solo che il fonendo e freddo ghiacciato. E che mi manda dalla specialista; in ospedale.
Il solo nome di specialista incute un po’ di apprensione, sembra intendere gravità. E poi c’è in sovrappiù, l’ospedale. Con quell’androne enorme e cavo. Come una stazione senza treni. Uno spazio vuoto in cui non ci si può che perdere. Prendo la mano di mamma e la lascio solo per farmi visitare. Una visita che a me sembra fin troppo scrupolosa. “E’ molto che manifesta questi sintomi?” dice il camice bianco. A dire il vero di “manifestare” ci avevo pensato, ma non avevo ancora avuto l’occasione. Manifesterei volentieri contro il secondo fonendo freddo, ma sono solo freddi questi aggeggi? e la sua aria che sembra parlare di una bici con le ruote sgonfie o della soffitta della casa di campagna. Mi fa stare ritta dietro un enorme marchingegno e mi dice di trattenere il respiro. Una specie di grossa finestra cieca mi ispeziona. Mi fotografa le ossa. Bofonchia. Rimugina. Brontola. Si gratta la testa. Per farla breve non è un male di stagione. Non è la solita otite. Non è una semplice bronchite. Me ne sento quasi in colpa.
Lastra in mano, una foto nera di cui nemmeno fossi un lazzaro resterebbero speranze, si fa ancora più burbero anche il medico della mutua. Devo averla proprio combinata grossa, stavolta. Uno consiglia, l’altro prescrive, o viceversa. E’ così che si impara a odiare prima il profilo e poi la persona. Mette tutto nero su bianco, una ricetta lunga come il ponte dei Sospiri. Piena di segni strani che potrei scrivermela da me. Nemmeno la mamma che dovrebbe saper leggere riesce a leggerla. Forse è scritta in una lingua solo sua, ma tanto basta per riempirmi di buchi il culo e per farmi ingoiare eserciti di pillole. Mi riempiono di penicillina. Non mangio che pastiglie e bevo solo acqua per mandarle giù. Bastava che aspettassero quel poco e non avrei avuto bisogno nemmeno delle lastre. Mi riduco pelle e ossa. E le ossa mi si vedono e mi si possono contare. Gli occhi affondano e si fanno di giorno in giorno più rossi. Ormai sono tutta occhi. Comincio a sospettare che potrei non sopravvivere alle loro cure.
Io sto sempre peggio. Mamma decide di cambiare pediatra. Posso ritenermi fortunata. Sono anni in cui non si conoscono le vie di mezzo. Uno sta bene o sta male. E i bambini, almeno della mia età, non devono aver voce. Si alza le spalle. Tutto è destino. Se deve essere è. Sì! toccando forse ho culo perché andiamo e lui è burbero ma è uno che sa il fatto suo. E’ padre di due vispi maschietti. Si vede fin da subito che anche quei ragazzini faranno parlare di sé; uno ha già fin da piccolo l’aria del filososo. Guarda le lastre contro luce. Guarda mia madre. “Signora, mi ha portato le sue”. “Guardi che sono quelle della bambina”. Vorrei dire “non chiamarmi bambina, usami la cortesia di chiamarmi per nome.” ma non ne ho ormai più la forza. “Mi scusi, signora, ma è un po’ piccola per avere la sua età, e lei è un po’ giovane per una bambina di venticinque anni”. Mi stavano curando per un altro.
A farla breve mi rifà le lastre. Lui ha nel suo ambulatorio quella grande belva con gli occhi che ti guardano dentro. Mi appoggia quella specie di finestra sul petto e mi sbircia sotto le vesti e le carni. Certo che, checché se ne dica, belli dentro non lo siamo proprio. Prima che scoppi mi dice che posso respirare. Lo ringrazierei anche per la clemenza ma non ho più fiato. Sto ancora agonizzando e cercando di riprendermi, fiaccata di mio e da tutte le loro cure, che mi ritrovo ricoverata. L’ospedale fa spavento a entrarci, figuriamoci quando sai che ci devi restare. Quando ti infilano in un letto. Anche lo stanzone del reparto poi è enorme e altissimo. Tanti letti e la maggior parte vuoti. Tutto ha un che di abbandono. La voce rimbalza dappertutto e tutto è in bianco e nero. I muri, i letti, le lenzuola, gli stipi, le infermiere e tutto è di un bianco quasi accecante. Tutto anche le suore, che sono bianche come fantasmi e con visi arcigni e scuri come corvi o appunto come le parole di un libro che non hai voglia di leggere. E tutte, suore ed infermiere, vanno di fretta. Hanno troppo da fare. Non hanno tempo. Quello che non scordano mai di fare è avvertire che è finita l’ora per le visite.
Mia madre cerca di stare più che può per farmi compagnia. Mi sembra preoccupata. Alza le spalle. Dice che mio padre si arrangerà. Sembra di stare in carcere a Santa Maria Maggior. Per quante ne escogiti mia madre più di tanto non riesce a sottrarsi al controllo di quelle guardiane. Deve andarsene, anche se mal volentieri. Non che la solitudine mi spaventi. Anzi mi aiuta a pensare. Sono solo angosciata dal pianto continuo della bambina che dorme due letti più in là. Poi senza nessun preavviso mi spostano in una stanzetta più piccola. Mi sembra di essere tornata a casa, in quella in Baia del Re. Dalle finestre vedo la laguna e le sue isole. Vedo Murano e non solo. Un gabbiano stupido ci sbatte addosso a quel vetro. Fa venire i brividi il verso stridente di quell’uccello. Vicino al mio letto c’è Maria. Lei viene da lontano, da un paesino vicino a Rovigo. Non so quale. Non saprei nemmeno quanto è lontano se non me ne parlasse mamma. Deve essere per quello che i suoi non si vedono mai. Lei è molto sola e anche lei piange molto. Mi fa pena. Mamma cerca di raccontarle qualche storia. Ha la voce dolce, quando vuole. Per alcuni attimi riesce a calmarla. E Maria è affascinata da un piccolo bicchiere che ho sul comodino. Avessi avuto più tempo saremmo certamente diventate amiche, nonostante il posto. Le lascio prendere il bicchiere.
In mezzo a tanto dolore c’è una suora che per calmare chi piange ha la bella pensata di farci prendere paura. Appare all’improvviso col volto coperto da una calza nera. Credevo che certe cose succedessero solo nei film. Forse si crede simpatica. Forse… vuole mantenere l’anonimato. Dovrebbero lasciare i figli in mano a chi sa cosa vuol dire farseli. E poi tirarli su. E’ stato allora che ho imparato che le parole possono essere pietre e soprattutto quella parola che usavo come una sasso: “Fanculo!” Non è nemmeno un vocabolo facile. Mi arrampicavo ancora a fatica e con imperizia fra quelle sillabe. Ma il suono era tagliente abbastanza e mi sgorgava proprio dal cuore. Me ne sentivo subito liberata. Si può essere più idiota di un idiota adulto? E allora “fanculo!” a lei e a tutto quel mondo senza colore.
Stavo già programmando la mia evasione quando ho vissuto quel martedì. Mamma era al fianco del mio letto. Le aveva appena girato le spalle, solo un attimo. Maria girava in mano quel bicchierino che l’aveva sempre affascinata tanto quando sentii il rumore del vetro che si infrangeva sul pavimento. Stavo per tirare il decimo dei miei fanculo, o forse era l’undicesimo, stavolta rivolto alla mia vicina e compagna di pene, quando mamma si è girata e ha fatto per chinarsi ed aiutarla. Maria sembrava essersi rimessa a dormire fregandosene della sua sbadataggine. Invece non era stata per nulla sbadata. Non ho capito subito, mica succede ogni momento. Ho visto solo la mamma farsi bianca come uno straccio. E’ corsa fuori invocando aiuto, ma Maria non si svegliava. Maria non si è più svegliata. E fuori la laguna era malinconica come solo a Venezia può esserlo.
Stavo meglio. Ho detto a mia madre “portami a casa”. Quello che avevo visto non era giusto. Ero troppo giovane. E un po’ mi ero messa in testa che sarebbe successo anche a me. Ma per il piano B avevo già la corda di lenzuola sotto il cuscino. Il letto di Maria era vuoto con una larga macchia gialla nel mezzo. L’unico colore in quel mondo e non era un colore allegro. E tutto sapeva di acido e di medicine. “Andiamo, a costo di farla tutta a piedi. Ho buone gambe, io; robuste”. Non ne ero sicura, perché avevo una spossatezza addosso, da non crederci. Mi sentivo come ubriaca. Non ero certa di riuscire a stare in piedi. Per una volta mia madre non ha avuto nulla da dire, ha tirato su col naso, mi ha stretto forte e poi ha preso a vestirmi. Credo che non l’avrebbe fermata nemmeno un treno. Mi sentivo già libera ma non avevo proprio voglia di ridere. Nella mia fantasia ancora immatura mi aspettavo di vedere sangue e sentire grida e adulti piangere e bestemmiare. Invece si può uscire da quell’altra porta così,  non visti e completamente in silenzio.