Ultimo giorno di viaggio e l’anima ci pesa assai e non aiuta certamente il fatto che ci aspetta l’anomalia di Hebron. Se fossimo in un favola diremmo che è la ciliegina sulla torta, ma ciliegina non è per niente e ce ne accorgiamo subito.
A Hebron si decide il destino della Palestina, perchè questa città è palestinese o almeno lo è stata fino a che un manipolo di coloni, ispirati da un dio annoiato e senza senso dello humor, si sono spinti ad occupare delle case a destra di Shuhada street, l’antica strada commerciale di Hebron, ma che adesso vogliono anche la sinistra di quella strada. Così i coloni occupano i piani superiori, espongono la stella di David e iniziano a bombardare di sporcizia quelli che passano e vivono sotto o che espongono le merci.
Ma vediamo più da vicino il “casus belli”: a Hebron vivono 200.000 palestinesi e negli ultimi anni si sono installati 700 ebrei venuti recentemente dall’Europa che hanno requisito, occupato a “tutto diritto”, a parer loro ovviamente, quello che era l’antico quartiere ebraico della città, a questi si devono aggiungere i circa 7.000 ebrei della contigua Qiryat Arba, la solita colonia dall’animo gentile. La questione è che gli ebrei che si sono installati, confiscando case e facendo sloggiare in malo modo i residenti, ovviamente supportati dall’esercito, rendono impossibile la vita dei palestinesi di tutta la città. Adesso comunque sono quasi a posto (ammesso che si accontentino, il che non è), si sono appropriarsi della strada centrale e commerciale, in modo da collegare liberamente le case di destra con quelle di sinistra e continuando così a trasformare la città in una nuova colonia.
Metodo fantastico per far morire d’inedia i commercianti dei piccoli negozietti e le loro famiglie. Ma ancora peggio, quei palestinesi che non si sono fatti cacciare, non solo non possono mai lasciare la casa incustodita perchè gliela occupano, come è successo ad una famiglia che era andata ad un matrimonio, ma anche si trovano le porte di uscita sbarrate e saldate con la fiamma ossidrica e sono costretti a mettere le griglie di protezione alle finestre. Per poter uscire usano i tetti delle abitazioni dei vicini o aprono un varco nelle altre abitazioni… Ma ti sembra vivere questo?
Sai che bello per un bambino che deve andare a scuola ogni mattina scavalcando, spaventato, i tetti e tremando quando deve rientrare, senza sapere mai davvero cosa troverà?
E così è stata chiusa Shuhada street, la colorata e allegra via del centro. Le porte sono state saldate e chiuse con i catenacci, le protezioni che erano state messe per proteggere la popolazione dal lancio di immondizie degli israeliani, dall’olio usato ai pitali di piscio, dai mattoni alle bottiglie di vetro, dagli avanzi di cibo ai vestiti smessi, ecco quelle restano a decorare il soffitto in modo da indicare a chi volesse riaprire la strada che non è un processo reversibile e che la strada rimane chiusa in mano all’esercito di occupazione.
E i palestinesi hanno spostato il mercato nella strada parallela, anch’essa difesa da reti di protezione, hanno riaperto bottegucce e banchetti e i colori si moltiplicano e gli odori di spezie e di falafel si diffondono ovunque. L’attivista che ci accompagna ci incoraggia a comperare per spingere questa gente a fare di più oltre che ad amare il loro paese al di là di ogni possibile dubbio. Non è stato facile spostare il mercato, la paura serpeggia, ma non è facile convivere con i coloni fianco a fianco.
Sono talmente aggressivi questi qui, che allevano i loro figli a sputare, dare calci, tirare pietre e a prendere a male parole e minacce i palestinesi. Metodo educativo molto sofisticato, che garantisce ai propri figli apertura mentale e capacità di stare nelle cose del mondo in modo adulto.
Ci dicono di stare attenti anche a noi e di non girare per le strade laterali del mercato vecchio, andate avanti dritti e non girate da soli… bel modo di vivere, così ad un certo punto veniamo affiancati da una ronda dell’esercito, armata come per la terza guerra mondiale, uno di loro capisce che siamo italiani e ci guarda con disprezzo e dice a voce alta, forse le uniche parole che gli hanno insegnato nella nostra lingua: “Italiani… terroristi!” Si allontanano pieni di boria ridendo, un altro di quei ragazzotti strafottenti, dalla pelle nera come il carbone, si tira il passamontagna fin sugli occhi. Si vergogna? Non lo so, io lo farei, mi vergognerei davvero di far parte di un esercito razzista che impone con le armi le catene ad un altro popolo, e poi mi vien da dirgli: pensaci bene, anche a volerlo non diventerai mai, tu ragazzo di colore, una persona che accede alle alte sfere del comando in questo paese, guardati la pelle, è del colore sbagliato, che ci fai in un paese simile? Sarà vero che il 70% degli israeliani vorrebbero abitare da un’altra parte, se potesse scegliere? Ma tengo ovviamente le cose per me anche perchè dall’alto ci arriva improvvisamente addosso una bottiglia, lanciata da una finestra della casa vicina. Fossi stata nei pressi avrei rilanciato il “pezzo” gridando “porci, riprendetevi la vostra spazzatura”, ma forse ha ragione Luisa, è tutto inutile, non è gente che ragiona.
Oggi, che sono in Italia apprendo la notizia che hanno sparato in faccia ad una ragazza di 21 anni, uccisa così stupidamente, dalle pallottole di un esercito di offesa, non di difesa, come usano dire. Hebron è una polveriera che tutti fanno finta di non vedere. Ed io provo rabbia sorda e profonda e mi chiedo: cosa farei per riavere la mia terra?
Come reagirei se mi uccidessero un figlio? Riuscirei ad essere generosa e altruista come il genitore israeliano che ci raccontò la sua storia il primo giorno di Palestina? Non credo, non so, devo ancora troppo metabolizzare.
Comunque ci mettono in allerta, ci dicono che è pericoloso, e allora ci infiliamo nei negozietti e io trovo delle kufije ancora più belle, tra le quali una nera e bianca pesante che mi salverà dal diluvio universale. Una bianca e rossa e una tutta bianca che non avevo mai visto prima. Una bella sciarpa di lana dai colori dorati e tante collanine con Handala, guardo le collane e gli orecchini che trovo bellissimi, ma che non userei mai, li guardo e ne vengo ammaliata, ma giro gli occhi e me ne dimentico, invece le sciarpe sono la mia passione, d’inverno ne cambio una al giorno a seconda dell’umore che ho. Sciocchezze di viaggio, mi vergogno di aver avuto dei momenti di debolezza così superficiali, ma almeno spero di aver contribuito all’economia dei miei fratelli palestinesi.
Alla fine della strada ci troviamo di fronte ad un check point, dobbiamo passare uno alla volta con gli zainetti a mano, superato il “gate” ci sono altri 200 metri di città svuotata e di negozi chiusi. Un altro punto di controllo e si entra nella realtà della colonia vera e propria. Ci fanno passare i soldati e bloccano i ragazzi palestinesi che avevano seguito Luisa, restano dall’altra parte delle transenne e ci salutano e ci chiamano, ma i soldati li cacciano via, qui siamo nella terra del padrone colono, di cui abbiamo davanti un vero rappresentante, che porta a spasso la sua arma raccontando le sue storie a un po’ di turisti americani (ebrei probabilmente). Un tipo barbuto e nero, con il fucile mitragliatore a tracolla. Rassicurante davvero, ma gli americani non ci fanno caso, sembra normale anche per loro.
La strada è percorsa da ragazzi con le basette a tirabuscio’ e con la kippah o zucchetto incollato sul cucuzzolo della testa, meticolosamente rasata.
Si aprono discussioni su come piantare la Kippah sulla testa per non farla cadere… io sostengo che la fissano con i chiodi… ma non tutti sono d’accordo.
Intanto si aprono le cateratte del cielo e ci infiliamo tutti in un negozio arabo sedendoci su sedie di cortesia messe sotto la tenda davanti al ceck point e alla garritta che si riempie subito del verde dell’esercito. La strada si allaga e l’acqua corre come un fiume in piena. Io sono quasi allegra, a parte i danni che questo acquazzone può causare, sto pregando che piova sulla valle del Giordano per giorni e giorni e che la terra riesca a fare tesoro di tutta quest’acqua, invece di essere incredula e talmente secca da essere diventata quasi impermeabile e di farsi scorrere addosso rivoli di fango.
Piove ancora, ma noi abbiamo un appuntamento. e attraversando guadi di fango e acqua che ci arriva alle caviglie, ci avviamo nella parte alta della città.
In tutto il percorso che abbiamo fatto, in questi giorni di viaggio, ci siamo resi conto che eravamo continuamente sotto controllo. In ogni dove le telecamere ci tenevano sott’occhio tanto che a volte ci veniva la voglia di mandare un salutino al controllore. A Hebron il controllo è totale, viene fatto dall’esercito e dai coloni stessi che si prendono l’arbitrio di giudicare cosa e come si deve andare per la “loro” città.
Così sotto una pioggia scrosciante arriviamo alla base di una lunga scalinata stretta interrotta da sentierini fangosi che tagliano la montagna e che consentono di risalire la collina faticosamente, ma in fretta. Alla base troviamo una camionetta dell’esercito che manovra davanti all’inizio della salita. Ci stringe sul ciglio della strada in modo da renderci impossibile la salita. Ma dai? Ma con chi credete di avere a che fare? Ci vien da sorridere sotto i baffi da terroristi italiani… e così, un per uno, passiamo la strettoia appoggiandoci sulla jeep con le mani, con i gomiti e con i piedi…. penseranno mica di fermarci vero? Sono loro che stanno in mezzo al nostro cammino mica noi…
Alla fine passati tutti e visto l’inutilità della loro presenza, decidono di andarsene, poveri cocchi, sarà mica questo che ci spaventa no? Ci stiamo facendo le ossa.
Arriviamo in alto in una casupola in mezzo ad un oliveto di piante millenarie, bellissime. Lì c’è il Centro dei Giovani contro gli insediamenti (Youth Against Settlements), un gruppo di ragazzi coraggiosi che ci raccontano la loro storia, a volte con tristezza, a volte con ironia, ci parlano della loro vita aa Al Khalil – Hebron. Ma prima di metterci a parlare, quando salgo al piano superiore e mi siedo a riposare fuori della porta, mi incontro occhi ad occhi con un soldato piazzato nel giardino di fronte a difesa dei coloni che vi abitano. Ha una tettoietta come riparo e sembra un burattino di pezza. Lo guardo e mi fa pena e pure tanta, chissà lui cosa pensa. Forse si sente un eroe a fare da palo nel giardino dei vicini. Sai che noia guardare negli occhi una vecchierella come me, che potrebbe essere tranquillamente sua nonna? Pevero soldatino di piombo, non ti senti un tantino ridicolo? Non pensi che l’unica arma che potrei usare è quella di buttarti le noccioline come si fa con le scimmiette allo zoo? Se sei tu la forza di Israele, inevitabilmente prima o poi una risata vi sepellirà.
Ma non è così facile, i racconti che seguiranno sono storie di normale follia, di un popolo senza legge che sta in mano ad un manipolo di coloni, ignoranti e razzisti, arrivati da altri paesi, che si fanno padroni anche della vita degli altri. La vedo dura per Israele di diventare un paese democratico e civile. La vedo ancora più dura di diventare un paese che ama se stesso… ma per questo ci vuole un particolare senso della giustizia e di umanità e qui purtroppo non ne è ancora nato il seme.
E il viaggio continua nel Centro di Resistenza Popolare sotto gli occhi di un soldatino intirizzito dal freddo.