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Jenin Jenin

In Amici, amore, Anomalie, Viaggi on 13 gennaio 2013 at 22:22


E passano i giorni ed io non sono ancora tornata. Se quello in Palestina doveva essere un viaggio di conoscenza, ho come l’impressione di aver perso la bussola e che è proprio per quello che fatico a tornare.
Non era sembrato difficile entrare e tanto meno sembrava difficile circolare in quel territorio fino al momento che mi sono accorta di girare per le strade dei padroni e che tutte le strade che dai villaggi dovrebbero unirsi alla via principale sono state sbarrate. Lì la fantasia degli occupanti si è sbizzarrita, massi e cubi di cemento, montagne di terra e sassi, buche scavate con le ruspe… e se qualcuno riesce ad uscire al primo controllo gli confiscano l’auto o il trattore… Perchè i palestinesi dovrebbero usare il trattore, se quella non è più la loro terra?
Ogni giorno del mio viaggio un peso maggiore nel cuore, palestinesi e beduini sempre la stessa storia. Si tira su con fatica una casupola, una stanza in più, un pezzettino di orto, si curano le antiche piante di ulivo e quelli arrivano con le ruspe e te le buttano giù, sradicano gli alberi centenari e ridono… ridono.
Tu tenti la strada della Corte di Giustizia perchè quella è comunque la tua terra, la tua casa e consegni le carte che certificano senza alcun dubbio il tuo diritto, ma c’è una nuova legge, c’è un nuovo cavillo, un disegno di menti contorte… tu sei sbagliato e fuori posto, mentre loro, i coloni, che appartengono alle colonie chiamate allegramente, pure da loro, illegali, dei documenti non ne hanno bisogno e ti ridono in faccia.
La terra gliel’ha consegna dio, dopo avergliela lungamente promessa. E scusate se a questo dio non posso attribuire una lettera maiuscola. Un dio così è a servizio del potere, è usato come frusta e fucile, come carcere e legge terrena che rende un essere umano eletto e l’altro paria. Un dio di distruzione e di ingiustizia.
Ma nemmeno il giudizio della Corte di Giustizia che sospende l’assalto al villaggio, nato dalla disperazione e dal coraggio dei Comitati popolari, riesce a fermare l’esercito più etico al mondo. A Bab Al Shams, la “Porta del sole” , stanotte hanno sfollato i nostri amici che avevano occupato con le tende altra terra destinata a 4000 coloni. Li ho visti e riconosciuti erano i nostri amici, quelli incontrati nel nostro viaggio, quelli a cui ora so attribuire un nome e una storia. Quelli che oggi sono i miei fratelli con i quali vorrei condividere la speranza. Ma speranza non c’è. E’ deludente, ma la speranza è una dote che non abbandona i palestinesi ed invece abbandona me.
Comunque inutile tergiversare, in questo viaggio di conoscenza, Jenin era lì ad aspettarmi. Non avevo le idee chiare di cosa fosse un campo profughi palestinese, trasformato in villaggio, distrutto e poi ricostruito, sembra tutto facile come se fosse la cosa più normale del mondo.
Io avevo conosciuto la Jenin del libro di Susan Abulhawa: quel dolce padre saggio e coraggioso che insegnava ai figli l’amore per la loro terra, quel padre che era la loro famiglia, quel coraggio con non poteva salvarlo.
Entrare a Jenin era come entrare in un mondo parallelo, fatto di parole e immaginazione. Ma nè le une nè l’altra corrispondevano alla realtà.
Per me Jenin significava il sole dolce delle sue mattine, un palco umano per i sogni dei bambini di Arna Mer e Juliano Mer Khamis, un po’ di realtà e tanta finzione per poter sopravvivere alla bruttura di questa esistenza. E bambini ne vedo, mi chiamano dentro le case e vogliono farsi fotografare, e ridono e recitano la loro infanzia che sopravvive malgrado tutto. Andiamo al Freedom Theatre, il miracolo di Arna e Juliano. Le loro foto. Arna, senza capelli, scavata dal male che la porterà alla morte e Juliano, un uomo bellissimo, anzi più che bello, un uomo affascinante, ammaliatore… ma non riesco a far a meno di rividere il suo funerale: i ragazzini che piangono e la musica che corre e lui che non c’è più ammazzato come un cane per la strada.
Ci accolgono con un buon caffè al cardamomo, ne berrò a litri, come berrò molto tè alla menta zuccherato e rigeneratore, a volte ci ha scaldato, a volte dissetato, fantastico è il tè preso sui bicchieri di vetro nelle case palestinesi, una carezza per tutti, un sorriso di benvenuto.
Fuori del teatro il sole ci aspetta… fa caldo, noi non ce lo aspettavamo… da noi giornate fredde e nebbiose ed io stavo smaltendo la fine di un’influenza che mi aveva squassato con febbre alta e raffreddore. Ma quel tepore mi rimetteva in sesto, ma allora non era vero che la temperatura era come da noi. Non sapevo che quando saremmo ripartiti la neve avrebbe ricoperto quelle case, quella terra martoriata, le cupole di Jerusalem e gli ulivi sopravvissuti alla follia umana.
Ci spostiamo a Nablus, vecchia città dell’olio di oliva buono e delle fabbriche di sapone, ma tutto muore anche l’operosità di un popolo in catene. La città che si nasconde sotto i portici e le stradine nascoste. Una città ferita dai carri armati, caterpillar contro sassi, non c’è resistenza che tenga. La loro pace si chiama deserto.
Le tende vuote di Bab Al Shams non sono state ancora distrutte, ma ironia della sorte, forse dopo averle violentemente svuotate dagli esseri umani, l’esercito aspetterà che si pronunci la Corte di Giustizia israeliana… che ridicola presa in giro. Ma torneranno le Porte del sole a riempire di speranza questa terra dimenticata, e io sarò ancora lì con voi, con i miei nuovi amici, e per sempre.

  1. E’ bellissimo, e non riesco a non commuovermi.

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