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Volevo fare il prete…

In La leggerezza della gioventù on 11 ottobre 2010 at 13:56

Sono nata femmina. Quando si nasce mica si sa di che sesso sei e almeno per un po’ credi di essere uguale a tutti gli altri, fratelli maschi compresi. Poi crescendo le cose le noti. Mentre a te qualche volta ti mettono dei pantaloncini a tuo fratello le gonne non le mettono mai. Questa cosa ti dà la strana, ma sbagliata sensazione, che donna è più libero. Ed invece no! La cosa è molto complicata e del tutto diversa da come appare.
Esattamente come si comporta un gatto cresciuto in un canile, si crede di essere una cosa ed invece è nato un’altra. Inutile tentare di convincere i miei di farmi uscire a giocare in strada, assieme a mio fratello maggiore. Giocare a pallone o tirare “canotti” con la cerbottana, per loro non erano palesemente giochi da ragazze. Vero era che mio fratello faceva il tifo per me, ma anche lì si trattava di mero egoismo, avermi con sé gli garantiva una vittima sacrificale. Che poi come vittima mi prestavo poco. Sembravo un soldino di cacio, ma ero coraggiosa e sprezzante del pericolo. Sapevo fare cose che i maschi non sempre riuscivano a fare.
Qualche volte mi ero cimentata a fare a “botte”. Si sa che la strada porta anche agli scontri fisici e non vince mai il più forte, ma il più determinato. Mio fratello lo sapeva e convinceva mamma che mi avrebbe tenuto d’ occhio lui. “Tze!”, mi dicevo “fa lo spaccone perché sa che a portarmi con lui, non gli costa niente”. L’unico problema era quando si tornava con le ginocchia sbucciate e qualche ematoma su zone visibili del corpo. Perché almeno, della femmina, avevo l’istinto sia di graffiare ma anche quello di mordere e del maschio quello di tirare cazzotti.
Nel gruppo dei compagni di giochi di mio fratello venivo, almeno, rispettata, tutto merito del fatto che un giorno mi sono “attaccata al collo” di un bullo, grande e grosso, che lo aveva minacciato, cercando di venirci alle mani. Io sono partita come un puma arrabbiato e montatagli sulle spalle l’ho graffiato e gli ho anche morso un orecchio. Era stata un’avventura epica che era finita bene, più che per la mia forza fisica, per la sorpresa che aveva provato quel povero derelitto. Mica sempre ci si trova a fronteggiare una iena.
Mia madre aveva il sospetto che non fossi la classica ragazzina dedita al gioco delle bambole, ma cercava di illudersi che prima o poi mi sarei adeguata. Errore che la portò a regalarci per una Befana una bambola schizzinosa a me e una bicicletta a mio fratello. Confesso che mi erano cadute le braccia dalla mortificazione. Ma chi la voleva quella stupida bambola con i capelli di stoppa e l’abito da gran dama dimessa? La bicicletta divenne la ragione del contendere tra me e il mio fratellone e lui ovviamente non mi ci lasciava mettere le mani sopra.
Offesa ed indignata, per vendetta, m’inventai un gioco casalingo che però, alla fine, fui costretta a condividere con lui. A cavallo della vecchia macchina da cucire di mia madre, sapete quelle vecchie “Singer” nere e tutta ottoni lucenti, mi ero “inventata” la mia astronave russa. Come ho già raccontato sono nata negli anni del dopoguerra, il che voleva dire che sono cresciuta nel periodo della “guerra fredda”, cosa che si ripercuoteva anche nei giochi tra me e mio fratello. Lui era dichiaratamente filoamericano, io dichiaratamente comunista. Che poi la cosa è continuata anche nel tempo… ma questa è comunque un’altra storia.
Insomma, se non potevo andare in bicicletta almeno avevo il mio Sputnik personale. Questo fu fonte di litigi furibondi, perché lui voleva che diventasse un Pioneer americano con lui come astronauta capo, ma il gioco l’avevo inventato io, quindi, ritenevo giusto, essere io la cosmonauta capo. Purtroppo il gioco finì il giorno in cui mio fratello si trapassò un dito con l’ago della macchina e la “Singer” fu vietata a tutti e due.
La bambola comunque finì, in bella mostra, nel mezzo del lettone dei miei, assolutamente ignorata da me, e la bicicletta nel magazzino di casa a far la muffa. Improvvido acquisto in una città dove si cammina a piedi e la sola vista di un bambino in bici crea il panico.
Come già dicevo, sapevo fare cose che molti maschi non si cimentavano a fare. Vivendo in una città di mare, una delle necessità primarie è quella di imparare a nuotare. I bambini convivono con rive senza protezione e, allora, i canali con l’acqua decisamente più pulita, invitavano a sporgersi per osservare o tentare di prendere i pesci o per catturare i granchi. Essendo figli di genitori che non avevano una grande dimestichezza con l’acqua, mia madre viveva nel terrore che ci succedesse qualche cosa. Il giorno in cui seppe che mi avevano visto, andare a scuola, appesa all’esterno del corrimano di protezione dei canali, decise di portarci tutti e due a scuola di nuoto.
Ovviamente, messa nell’acqua, non aspettai nemmeno che un bagnino posasse il suo sguardo pietoso sulla principiante e partii nella mia prima avventura tra le onde, decisa a raggiungere l’altra riva. Mia madre, era rimasta senza fiato, aveva gli occhi stralunati e le mani sui capelli. Mio fratello, che stava attaccato alla rete di protezione, mi chiamava a squarciagola, incerto se lasciare la presa e morire annegato con me oppure dimostrare la sua maschia codardia, optando per la seconda.
Arrivai sana e salva dall’altra parte. E che ci voleva? Bastava solo muovere braccia e gambe e non bere acqua. Dove stava la difficoltà?
Ma non sempre le cose andavano così. Mia madre non intendeva, dopo la delazione invidiosa di mio fratello, andarmi sempre a recupera sugli alberi e pertanto, grande furbata, mi proibiva di indossare i pantaloncini smessi di mio fratello. Alla fine mi toccava, per quel po’ di pudore che mi rimaneva, restarmene tranquilla, per evitare di mostrare le mutandine ai ragazzini coi quali giocavo. Questo modo di vestire mi aveva aiutato invece a pensare di cimentarmi, con maggiore facilità, a fare la pipì in piedi visto che la gonna, almeno, aveva un merito e mi copriva in parte. Quella della pipì in piedi fu un esperimento fallimentare su tutti i fronti. Inutile mettersi di fronte ad un muro, imparai a mie spese che una femmina finisce sempre per bagnarsi i calzini e le scarpe, con grande vergogna successiva.
Non so poi se il mio amore per gli animali fosse o meno una qualità femminile o maschile, certo è che mi portavo a casa di tutto, sotto lo sguardo schifato di mio fratello e quello sconsolato di mia madre. In genere ero specializzata in preparare “coppette di gelato” piene di vermi o di rane appena nate. Rubavo i gamberetti vivi, che mia madre prendeva per la frittura, e li coltivavo nei bicchieri con acqua e sale. Come una gattara venivo seguita amorosamente da gattini in amore e così pure mi portavo a casa cagnolini errabondi. La frase storica di mia madre, a quel punto era: “O me o loro!” e questo metteva fine, dolorosamente, al mio zoo privato.
Non so bene che cosa mi passasse per la testa. Non credo di aver avuto la benché minima idea di una rivalsa in base al genere. Ero solo fatta così: un po’ troppo curiosa e insofferente alle limitazioni. Ma la strada sarebbe stata ancora lunga e difficile. Dovevo imparare ancora molto. Mica ti guardano bene quando, a scuola, alla suora che ti interroga su cosa vorresti fare da grande, gli rispondi senza usare preamboli: “Io voglio fare il prete…”. Inutile tentare di farmi ragionare, nel mio modo di pensare o era prete o niente. E così fu: niente.