Premessa alla parte sesta.
Una casa nuova e un quartiere diverso non cambiano la vita. Nemmeno la televisione e la nuova scuola. Ciò che ti cambia la vita è la trasformazione fisica che subisce un essere umano da quando nasce in poi. Io sto diventando femmina e non lo ho ancora deciso. Niente valgono le mie corse per superare i maschi. Le mie prove di coraggio da “cazzo! io ce l’ho più duro”. Il taglio di capelli con la mascagna che mi fa il “Barbiere di famiglia”. Niente riesce a cancellare quell’aria da sbarazzina puntigliosa con il naso tempestato di lentiggini. Sto diventando una donna contro la mia volontà e mi dispera.
Che fare! Spiegava Lenin. Che fare? Penso io. Mi vengono in mente mille cose. Mi passa per la mente che potrei scegliere la strada di Oskar e del suo tamburo di latta. Basterebbe una caduta da una scala e non crescere più. Ma sinceramente mi pare una cazzata. Che lotta puoi fare con un semplice tamburo di latta? Puoi forse cambiare il mondo? Macché, puoi solo ritardare le tue battaglie e prendere tempo, ma io tempo non ne ho. Ho troppo da fare, troppe cose a cui pensare. E infine so io dove le infilerei quelle bacchette. E a chi scaglierei addosso quel tamburo. Che la vita è lotta e allora se lotta deve essere lotta sia.
Per il momento continuo a frequentare una scuola privata, sempre suore, non le stesse, ma con lo stesso andazzo delle altre. Mani conserte, mani dietro la schiena. Occhi piegati e imploranti e per me esercizi di schiavitù. Grembiulini bianchi perfetti e fiocchi rosa. E ai maschietti fiocchi azzurri. Mi guardo il fiocco. Ma che c’entra? Perché due colori diversi? Comincio a scassare le palle. Voglio anche io il fiocco azzurro, mi fa meno bomboniera. Mi sembra meno imbecille. La suora mi guarda con il sopracciglio inarcato come fossi una puzzola nell’atto di odorare. “Tu mi prendi in giro!” Questo è da sempre uno dei primi problemi: la gente sembra fare fatica a credermi. Sei solo una bambina, pensano.
Mi manda da sorella Modesta che è la portinaia e anche quella che pulisce i cessi. A modo suo è una proletaria e si vede dalle mani, e a me è simpatica. E’ una sensazione del tutto naturale. Diffido ma non riesco a farmela diventare antipatica. Mi guarda burbera nascondendo un sorriso e mi sgancia un pizzicotto sulla guancia che mi resta il segno per due giorni. Questa è tortura bella e buona, chiamerò il telefono azzurro, azzurro come il fiocco che voglio portare, anche se quel numero non esiste ancora. In fin dei conti le grandi conquiste iniziano da piccole vittorie. Non so ancora se il suo gesto è un gesto di simpatia, tutto sommato credo di sì. Non lo fa con tutti, questo l’ho notato. Sceglie le sue “vittime” tra i figli del popolo, è come se fosse una preferenza. La pizzicata fa male , ma per lei è come se mi avesse fatto una carezza speciale. Certo che un calcio sullo stinco… Anch’io vorrei mostrarle la mia preferenza, ma desisto. La guardo incavolata nera e lei non mi bada e mi porta nella stanzetta della portineria. “Stai buona qui che io ho un sacco di cose da sbrigare!” Che noia fare i buoni e quella stanza della portineria che ha la puzza persistente di cavolo.
In quella portineria, che frequento ormai d’abitudine anche se involontaria, faccio le mie prime, altre, opere d’artista. A parte l’anima che disegno sempre meno brillante e sempre più macchiata delle colpe di noi poveri peccatori. Anima che so essere la metafora della mia prigionia e che col tempo diventa sempre più opaca di tristezza. Continuo col disegnare le mie prime carte geografiche. Carte di un mondo che non c’è. Che nasce nella mia fantasia. Che mi invento. Il mondo lo devo ancora scoprire ma so già che lo scoprirò. E’ lì fuori che mi aspetta. Le coste sono le più frastagliate che si possano creare. La mia nave da “corsa” segue i contorni di terre inospitali. Sono Ulisse e qualche volta il Corsaro Nero, con tanto di banda nera nell’occhio guercio. Qualche volta non disdegno nemmeno la gamba di legno. Ulisse però è più fine, non bestemmia mai come il vecchio Corsaro, nemmeno come nonno Carlo. Quando io racconto le sue storie incanto tutte le sirene del mare e pure i pinguini. Però non ci voglio avere nulla a che fare con quella cozza di Penelope. Fare e disfare non è certo l’immagine dell’avventura. Non m’incontra per niente.
Quando sono Ulisse, a casa non ci torno mai, vado avanti verso lo stretto di Gibilterra che poi se casco giù mica mi preoccupo. Almeno su questo io i dati ce li ho. La terra mica è piatta. S’è pur scornato Galileo, per anni, a convincere Papa e preti che sarebbe stato meglio lasciassero fare a lui che di comprendonio ne aveva certo di più. Ma tanto ancora mica gli credono. Ma come sempre chi non sa comanda. Nel frattempo le mie carte geografiche prendono sempre più forma. Prediligo più il mare che la terra; è naturale. Che poi si sa che la terra porta guai. Anche qui in Italia, al sud, i braccianti si fanno ammazzare proprio per un pezzo di quella terra. Ancora non capisco bene, ma deve essere importante. So che dovrò capire. Mi dovrò informare. E al governo c’è un altro nano che comanda. Che già con quello prima, con quel mezzo re, le cose mica erano andate bene. Lui se ne è scappato mentre gli altri ci lasciavano la ghirba. Sono proprio tutti uguali questi “grandi” condottieri. E fanno almeno due, di nani; avanti il prossimo. E’ proprio vero che i tempi non cambiano mai. I nani sono una genia resistente, forse troppo. Ma almeno questo qualcosa di politica la sa. Purtroppo. Purtroppo perché sa bene la sua parte, mica quella di tutti. E questo proprio non mi piace. Arte da nani; comunque.
E poi c’è quel canale, di Suez lo chiamano, e si parla di guerra atomica. Non ne avessimo altri di mali. Mica l’ho capito. Gli egiziani hanno un canale nel loro deserto e gli inglesi e i francesi lo vogliono loro, per non parlare poi di tutto quello che succede intorno. Per un pezzo di deserto. Per una distesa di sabbia che sembra un’enorme spiaggia senza mare. Ci dev’essere qualcosa sotto. Mi sa che i guai sono solo all’inizio. Che poi c’è anche l’affare dell’Ungheria. I carri armati che passano davanti alle vetrine dei negozi. Per quelle strade senza colore. Sarà per quello che le foto sono in bianco e nero. Il che rende tutto ancora più drammatico. Il dramma esposto in televisione. La verità che ci raccontano è un’altra verità. Cominciano presto a prenderci per il naso. Meglio che taccia i commenti di mio padre. Penso che lui sia solo in grado di capire le cose del calcio o del pugilato. Dello sport sì ne parla con competenza. D’altra parte è lo sport che accomuna tutti gli italiani. Su quello ci passano delle ore. Su quello potrebbero fare la rivoluzione. Già penso che questo paese mi sta stretto. Non bazzico ancora la politica. Però sono curiosa, in qualche modo mi affascina. Poi a me piacciono tutte le cose che per assunto sono definite “sporche”. Comunque guardo il mondo dal mare perché sulla terra c’è tanto casino. Cerco di starmene alla larga, ma prima o poi dovrò farci i conti.
E i conti arrivano presto, proprio sotto terra succede la cosa peggiore: un sacco di minatori ci restano sotto a Marcinelle. E io faccio carte geografiche, piccola amanuense dell’avventura. E disegno più mare che terra ed è dal mare che giudico tutti quei piccoli uomini che vogliono diventare importanti e potenti. Tutta quella presunzione. Nessuna corsa al potere spirituale ma una precisa lotta per quello temporale. E per la bistecca. Anche quando hanno la pancia già piena. Egoismo e voracità. Chi più ha più vorrebbe. E i tuoni intronano e i fulmini cadono qua è là. Li maledico. Questo è il mio potere temporale. Il solo e l’unico che voglio avere.
A suon di carte geografiche ho disegnato il mondo intero. Anche di più. Non mi piace ancora il lavoro che ho fatto, troppe discordie e troppe guerre da tutte le parti. So che ci devo tornare. Poi lascio pure la sicurezza del mare. L’Andrea Doria, speronata, affonda. Disperati che arrancano in cerca d’aria. 46 morti annegati e ci è andata ancora bene. Allora torno alla terra e torno a pensare ai minatori di Marcinelle. La cosa mi tocca. Mi sembra di averli sempre davanti agli occhi. Quei poveri cristi. 262 morti di cui 136 italiani, e solo 13 minatori sopravvissuti. E’ un conto che non mi piace. E’ fatto di grida di agonia soffocate da polvere e da gas. Con gli occhi sbarrati e le bocche piene di terra e di sassi. E’ per loro che disegno gallerie infinite, alcove regali e mense comuni, infermerie e nursery sotto terra. Ecco finalmente i miei primi formicai. Regni di democrazia e collaborazione, di sicurezza e organizzazione. Non lascio niente al caso. Precisi e perfetti. Forse non sono politicamente corretti, ma almeno le gallerie non crollano. E non si muore.
Sorella Modesta ogni tanto passa dentro la mia prigione, in portineria, e guarda le mie opere. Scuote la testa e profetizza: “Tu diventerai qualcuno!” Bella forza, che dovrei diventare: nessuno? E poi io… beh! la verità è che sono già qualcuno. Intanto l’America mi parla; arrivano gli americani dispensatori di democrazia. E arrivano da lì un sacco di novità. Da di là del mare. A sentir loro, le mie suorette, le mie guardiane perfide, non sono tutte belle. Per esempio la musica e i balli. Già! perché intanto Elvis the Pelvis si sloga il bacino a suon di rock and roll. E le suore gridano, spaventate: “vade retro Sa(r)tana!” E’ la musica del corpo. Non si ascolta solo con le orecchie. Si sente con la pelle. E’ un urlo. Certo che anche a loro fa muovere le gambe, e pure il loro bacino antropomorfo. Lo so non può essere diverso. Deve essere questo a spaventarle. Quella sorta di grande voglia. Quel calore dentro. Per questo gridano alla possessione. Pensano che non posso capire. Loro mi considerano un po’ figlia del diavolo. Già s’impegnano tanto per la mia sottomissione, povere cocche. Scoppio a ridere. In realtà la risata mi esplode dentro. Io lo so: Anche voi siete nate donne. E siete passate di lì.