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Tra anime sporche, carte geografiche e formicai.

In Anima libera on 24 dicembre 2010 at 10:42

Grafica vettoriale di un biberon che va alle fiamme

Premessa alla parte sesta.
Una casa nuova e un quartiere diverso non cambiano la vita. Nemmeno la televisione e la nuova scuola. Ciò che ti cambia la vita è la trasformazione fisica che subisce un essere umano da quando nasce in poi. Io sto diventando femmina e non lo ho ancora deciso. Niente valgono le mie corse per superare i maschi. Le mie prove di coraggio da “cazzo! io ce l’ho più duro”. Il taglio di capelli con la mascagna che mi fa il “Barbiere di famiglia”. Niente riesce a cancellare quell’aria da sbarazzina puntigliosa con il naso tempestato di lentiggini. Sto diventando una donna contro la mia volontà e mi dispera.

Che fare! Spiegava Lenin. Che fare? Penso io. Mi vengono in mente mille cose. Mi passa per la mente che potrei scegliere la strada di Oskar e del suo tamburo di latta. Basterebbe una caduta da una scala e non crescere più. Ma sinceramente mi pare una cazzata. Che lotta puoi fare con un semplice tamburo di latta? Puoi forse cambiare il mondo? Macché, puoi solo ritardare le tue battaglie e prendere tempo, ma io tempo non ne ho. Ho troppo da fare, troppe cose a cui pensare. E infine so io dove le infilerei quelle bacchette. E a chi scaglierei addosso quel tamburo. Che la vita è lotta e allora se lotta deve essere lotta sia.
Per il momento continuo a frequentare una scuola privata, sempre suore, non le stesse, ma con lo stesso andazzo delle altre. Mani conserte, mani dietro la schiena. Occhi piegati e imploranti e per me esercizi di schiavitù. Grembiulini bianchi perfetti e fiocchi rosa. E ai maschietti fiocchi azzurri. Mi guardo il fiocco. Ma che c’entra? Perché due colori diversi? Comincio a scassare le palle. Voglio anche io il fiocco azzurro, mi fa meno bomboniera. Mi sembra meno imbecille. La suora mi guarda con il sopracciglio inarcato come fossi una puzzola nell’atto di odorare. “Tu mi prendi in giro!” Questo è da sempre uno dei primi problemi: la gente sembra fare fatica a credermi. Sei solo una bambina, pensano.
Mi manda da sorella Modesta che è la portinaia e anche quella che pulisce i cessi. A modo suo è una proletaria e si vede dalle mani, e a me è simpatica. E’ una sensazione del tutto naturale. Diffido ma non riesco a farmela diventare antipatica. Mi guarda burbera nascondendo un sorriso e mi sgancia un pizzicotto sulla guancia che mi resta il segno per due giorni. Questa è tortura bella e buona, chiamerò il telefono azzurro, azzurro come il fiocco che voglio portare, anche se quel numero non esiste ancora. In fin dei conti le grandi conquiste iniziano da piccole vittorie. Non so ancora se il suo gesto è un gesto di simpatia, tutto sommato credo di sì. Non lo fa con tutti, questo l’ho notato. Sceglie le sue “vittime” tra i figli del popolo, è come se fosse una preferenza. La pizzicata fa male , ma per lei è come se mi avesse fatto una carezza speciale. Certo che un calcio sullo stinco… Anch’io vorrei mostrarle la mia preferenza, ma desisto. La guardo incavolata nera e lei non mi bada e mi porta nella stanzetta della portineria. “Stai buona qui che io ho un sacco di cose da sbrigare!” Che noia fare i buoni e quella stanza della portineria che ha la puzza persistente di cavolo.
In quella portineria, che frequento ormai d’abitudine anche se involontaria, faccio le mie prime, altre, opere d’artista. A parte l’anima che disegno sempre meno brillante e sempre più macchiata delle colpe di noi poveri peccatori. Anima che so essere la metafora della  mia prigionia e che col tempo diventa sempre più opaca di tristezza. Continuo col disegnare le mie prime carte geografiche. Carte di un mondo che non c’è. Che nasce nella mia fantasia. Che mi invento. Il mondo lo devo ancora scoprire ma so già che lo scoprirò. E’ lì fuori che mi aspetta. Le coste sono le più frastagliate che si possano creare. La mia nave da “corsa” segue i contorni di terre inospitali. Sono Ulisse e qualche volta il Corsaro Nero, con tanto di banda nera nell’occhio guercio. Qualche volta non disdegno nemmeno la gamba di legno. Ulisse però è più fine, non bestemmia mai come il vecchio Corsaro, nemmeno come nonno Carlo. Quando io racconto le sue storie incanto tutte le sirene del mare e pure i pinguini. Però non ci voglio avere nulla a che fare con quella cozza di Penelope. Fare e disfare non è certo l’immagine dell’avventura. Non m’incontra per niente.
Quando sono Ulisse,  a casa non ci torno mai, vado avanti verso lo stretto di Gibilterra che poi se casco giù mica mi preoccupo. Almeno su questo io i dati ce li ho. La terra mica è piatta. S’è pur scornato Galileo, per anni, a convincere Papa e preti che sarebbe stato meglio lasciassero fare a lui che di comprendonio ne aveva certo di più. Ma tanto ancora mica gli credono. Ma come sempre chi non sa comanda. Nel frattempo le mie carte geografiche prendono sempre più forma. Prediligo più il mare che la terra; è naturale. Che poi si sa che la terra porta guai. Anche qui in Italia, al sud, i braccianti si fanno ammazzare proprio per un pezzo di quella terra. Ancora non capisco bene, ma deve essere importante. So che dovrò capire. Mi dovrò informare. E al governo c’è un altro nano che comanda. Che già con quello prima, con quel mezzo re, le cose mica erano andate bene. Lui se ne è scappato mentre gli altri ci lasciavano la ghirba. Sono proprio tutti uguali questi “grandi” condottieri. E fanno almeno due, di nani; avanti il prossimo. E’ proprio vero che i tempi non cambiano mai. I nani sono una genia resistente, forse troppo. Ma almeno questo qualcosa di politica la sa. Purtroppo. Purtroppo perché sa bene la sua parte, mica quella di tutti. E questo proprio non mi piace. Arte da nani; comunque.
E poi c’è quel canale, di Suez lo chiamano, e si parla di guerra atomica. Non ne avessimo altri di mali. Mica l’ho capito. Gli egiziani hanno un canale nel loro deserto e gli inglesi e i francesi lo vogliono loro, per non parlare poi di tutto quello che succede intorno. Per un pezzo di deserto. Per una distesa di sabbia che sembra un’enorme spiaggia senza mare. Ci dev’essere qualcosa sotto. Mi sa che i guai sono solo all’inizio. Che poi c’è anche l’affare dell’Ungheria. I carri armati che passano davanti alle vetrine dei negozi. Per quelle strade senza colore. Sarà per quello che le foto sono in bianco e nero. Il che rende tutto ancora più drammatico. Il dramma esposto in  televisione. La verità che ci raccontano è un’altra verità. Cominciano presto a prenderci per il naso. Meglio che taccia i commenti di mio padre. Penso che lui sia solo in grado di capire le cose del calcio o del pugilato. Dello sport sì ne parla con competenza. D’altra parte è lo sport che accomuna tutti gli italiani. Su quello ci passano delle ore. Su quello potrebbero fare la rivoluzione. Già penso che questo paese mi sta stretto. Non bazzico ancora la politica. Però sono curiosa, in qualche modo mi affascina. Poi a me piacciono tutte le cose che per assunto sono definite “sporche”. Comunque guardo il mondo dal mare perché sulla terra c’è tanto casino. Cerco di starmene alla larga, ma prima o poi dovrò farci i conti.
E i conti arrivano presto, proprio sotto terra succede la cosa peggiore: un sacco di minatori ci restano sotto a Marcinelle. E io faccio carte geografiche, piccola amanuense dell’avventura. E disegno più mare che terra ed è dal mare che giudico tutti quei piccoli uomini che vogliono diventare importanti e potenti. Tutta quella presunzione. Nessuna corsa al potere spirituale ma una precisa lotta per quello temporale. E per la bistecca. Anche quando hanno la pancia già piena. Egoismo e voracità. Chi più ha più vorrebbe. E i tuoni intronano e i fulmini cadono qua è là. Li maledico. Questo è il mio potere temporale. Il solo e l’unico che voglio avere.
A suon di carte geografiche ho disegnato il mondo intero. Anche di più. Non mi piace ancora il lavoro che ho fatto, troppe discordie e troppe guerre da tutte le parti. So che ci devo tornare. Poi lascio pure la sicurezza del mare. L’Andrea Doria, speronata, affonda. Disperati che arrancano in cerca d’aria. 46 morti annegati e ci è andata ancora bene. Allora torno alla terra e torno a pensare ai minatori di Marcinelle. La cosa mi tocca. Mi sembra di averli sempre davanti agli occhi. Quei poveri cristi. 262 morti di cui 136 italiani, e solo 13 minatori sopravvissuti. E’ un conto che non mi piace. E’ fatto di grida di agonia soffocate da polvere e da gas. Con gli occhi sbarrati e le bocche piene di terra e di sassi. E’ per loro che disegno gallerie infinite, alcove regali e mense comuni, infermerie e nursery sotto terra. Ecco finalmente i miei primi formicai. Regni di democrazia e collaborazione, di sicurezza e organizzazione. Non lascio niente al caso. Precisi e perfetti. Forse non sono politicamente corretti, ma almeno le gallerie non crollano. E non si muore.
Sorella Modesta ogni tanto passa dentro la mia prigione, in portineria, e guarda le mie opere. Scuote la testa e profetizza: “Tu diventerai qualcuno!” Bella forza, che dovrei diventare: nessuno? E poi io… beh! la verità è che sono già qualcuno. Intanto l’America mi parla; arrivano gli americani dispensatori di democrazia. E arrivano da lì un sacco di novità. Da di là del mare. A sentir loro, le mie suorette, le mie guardiane perfide, non sono tutte belle. Per esempio la musica e i balli. Già! perché intanto Elvis the Pelvis si sloga il bacino a suon di rock and roll. E le suore gridano, spaventate: “vade retro Sa(r)tana!” E’ la musica del corpo. Non si ascolta solo con le orecchie. Si sente con la pelle. E’ un urlo. Certo che anche a loro fa muovere le gambe, e pure il loro bacino antropomorfo. Lo so non può essere diverso. Deve essere questo a spaventarle. Quella sorta di grande voglia. Quel calore dentro. Per questo gridano alla possessione. Pensano che non posso capire. Loro mi considerano un po’ figlia del diavolo. Già s’impegnano tanto per la mia sottomissione, povere cocche.  Scoppio a ridere. In realtà la risata mi esplode dentro. Io lo so: Anche voi siete nate donne. E siete passate di lì.

Sentimentale (sacro e profano)

In Anima libera on 18 dicembre 2010 at 8:00

Foto BN con papà, mamma e i due figli
Premessa alla parte quinta
Non è facile tenere il mondo, sospeso, tra le proprie mani. Ciò che sconvolge di più un bambino è l’incapacità degli adulti di dare delle risposte. Pensa che loro sappiano tutto ed invece non è così. Per esempio io so molte più cose, ma nessuno mi chiede come la vedo. Per me il mondo è una gabbia di matti, tutti fanno il contrario di quello che si dovrebbe. A volte penso di mollare e lasciarli nella cacca. E poi mi dico, tu sei nata con una missione. Devi salvarli e devi salvarti. Non c’è scampo.

Volete l’avventura? Beh! con me non manca mai. La mia vita è fatta di spazi, di sfide, di lotte, di praterie e di cavalli. La mia vita è una vita che non ha certezze. E odio il nome che mi hanno dato. E so già che i miti nascono per morire.¹ Nemmeno io, d’altronde, sto bene nei miei panni; che vi credete? E questa non è nemmeno l’america. Che la mia amerika deve ancora venire. Qui ci sono solo topi grandi come gatti e gatti che li osservano guardinghi, senza sapere cosa dovrebbero fare. Colombi che cagano su tutto e tutti e cani che la lasciano in ogni angolo. Che di turisti non se ne vedono e sono certa che si schiferebbero perfino di pisciare contro i nostri muri. Ma c’è sempre il momento in cui le cose bisogna farle e non si può farne a meno. La sacra famiglia se ne va. E sembra andare alla deriva.
Volete del gran sesso? Mio fratello insiste per giocare assieme, al dottore. L’idea non mi piace. Poi ci ripenso. Da una parte o dall’altra devo pur cominciare. Ma lui vuole fare il chirurgo. E io, come in ogni sua fantasia, devo fare la vittima. Secondo lui dovrei rimanermene lì buona immobile a farmi operare. E’ già pronto, bisturi in mano per tagliare e poi cucire. Si conferma che è e resta sempre un cretino. Ma forse sono i maschi ad essere tutti un po’ diciamo… immaturi. Diciamo… tonti. Dovrò tenerlo a mente. Comunque come prima esperienza, devo dire, è stata deludente. Mica mi aspettavo che il sesso fosse così. Se lo fosse, sarebbe da strapparsi i capelli per la frustrazione. Insomma meglio cancellare tutto e ripartire da zero. Ma c’è tempo per tutto, in fondo non ho che quattro anni. Ho ancora tutta una vita davanti. E già ho dovuto scalare anch’io faticosamente le mie vette.² Ci fosse qualcuno ad aiutarmi. Ma i tempi non sono maturi. Ho amaro in bocca. Che palle!
Vorrei solo ripetere che io non scappo. Fosse per me resterei. Fatte le valigie ed è poca cosa, non c’è nessuno che debbano salutare. Stiamo per lasciare il quartiere che chiamano ghetto, dove io ho preso le mie prime misure al mondo. Dove ho mosso i primi passi in mezzo agli altri. E vinto le prime battaglie. E mi sono sbucciata per la prima volta le ginocchia. Le mie prime eroiche cicatrici. Loro invece già liberano un sospiro. Ma io lascio la teppaglia, ma anche il cuore malato di questa città. Cuore malato sì, ma sempre cuore. Certo sono nata bastarda, ma mica senza sentimenti. Io a quei ragazzini voglio bene. Li ricordo tutti per nome. Alfio, Franchino, Roi e Rasmino… Sono tutti belli, fieri e cattivi, a parte Alfio che è, come già detto, diverso. E’ così che stiamo per partire verso questa nuova destinazione. E io fatico a buttare giù una lacrima che mi brucia dentro al naso. Sì che palle! Non devono vedermi piangere. E’ duro da ammetterlo, per una come me.
Partire è lasciarsi indietro anche la tristezza delle file grigie degli orfanelli. Con loro non sono mai riuscita a giocare. Passano mesti per la strada e vengono rinchiusi nell’Istituto. Loro sì che sono soli. Quando passano una nebbia scura offusca il sole. Mi fanno pensare a tanti Peter Pan senza favola. A tante finestre e porte chiuse davanti ai loro occhi. Alla felicità che non possono avere. Prima di andarmene voglio fare qualcosa per loro. Voglio aprire quel cancello che resta sempre chiuso. Voglio una bomba per farlo saltare. E bomba su bomba arriverò a Roma, malgrado voi… Così prima di andarcene prendo i colori dall’astuccio di Ernesto e mi cimento nella mia prima prova d’artista. L’idea è quella di disegnare l’anima, inconsistente ed eterea, sospesa dietro alle sbarre. La sua luce è opaca, perché non è libera. Il messaggio è chiaro: l’anima è inconsistente, leggera, evanescente. Le sbarre sono larghe, ma non abbastanza. Fatela uscire e fatela brillare. Liberatevi. Una madre e un padre non sono necessari per esistere, o forse sì, ma è solo un fatto secondario. Lascio il disegno tra le inferiate del cancello, è il mio ultimo addio, il lasciapassare per la vita.
Ripeto: bando alle ciance, nessun rimpianto. Chiamarla in modo ironico King’s bay le da un’ aria misteriosa che non ha. Ti aspetti tutto, pensi ai gialli americani, ai noir e ai polizieschi, pensi all’oceano rabbioso. Ti aspetti di incontrare Sam Spade o Philip Marlowe con le mani affondate nelle tasche del suo trench. Niente di tutto questo. Una sorta di isola del degrado, dove la guerra non può mai finire. Ti senti sporco tu stesso, come quei muri che non fanno altro che squamarsi e singhiozzare polvere. Vige la legge del taglione. Solitamente l’altra legge non entra qui, si limita ad alzare le barricate ai confini, ad isolare quelli che stanno dentro. E quando deve entrare, allora passa rapida senza alzare gli occhi, sotto sguardi di odio. E’ come un esercito di invasione, e loro, gli abitanti lo sanno. Le donne gridano tutte le parole rabbiose che conoscono, e se la prendono anche con le loro antiche genitrici. Siamo prigionieri, figli di madri nate qui ignare della loro colpa. Il nostro destino è nella nostra pelle. Ma la mia di pelle è troppo bianca per confondersi con la loro. E la barca è già pronta sulla riva.
Quando saliamo per me il mondo è ancora solo la “Baia del Re” ovvero la Sacca San Girolamo,³ come la chiamavano i vecchi. I vecchi hanno sempre un altro nome per le cose. Finisce alla Fondamenta Colletti, ai piedi del Ponte Moro. Un ponticello che ci separa dalla civiltà. E qui il freddo è freddo veramente. Proprio come quello nelle Isole Svalbard al Polo nord. Ci andrò un giorno. Non so quando e chi me ne ha parlato. O forse è la fantasia che non mi manca. Il vento passa attraverso i vestiti. Non mi spaventa quello che c’è dopo. Guardo diritto davanti come ho sempre fatto, oltre il mio naso. Lascio certo quel po’ di me: qualche amico, ma alla fine poche cose. Dovrebbe esserci apprensione quando si parte. Ma c’è pure curiosità e voglia di scrollarsi la pena da addosso. Ho molte speranze.
C’è un ultimo gesto da fare: annego la mia bambola spelacchiata nel canale, la prima bambola che sarà anche l’ultima. E’ l’immagine di una stupida donna che sa solo piangere. La affogo senza rimpianti in quel mare tanto basso che posso vederci il fondo. Mentre affonda già la dimentico. Mi affascina la scia del remo che accarezza delicatamente la superficie dell’acqua come fosse una sposa. L’ho già detto che voglio diventare marinaio? Credo di sì. Molte sono le storie che s’imparano andando per mare. Le voglio conoscere tutte. E poi mi piacciono i riflessi sulle onde. Mi piace quell’odore che sale. Mi piace tutto dell’acqua. Debbo essere un po’ pesce. L’aveva detto mio padre quando sono nata. Ma non voglio essere quel pesce lì. Vorrei essere una sirena, ma non sono abbastanza bella per esserlo. E poi ho questi capelli, che sotto il mare si vedono troppo. Sembrano rivoli di sangue, riflessi di rame. Devo lasciarmi portare dall’acqua, devo fidarmi dell’istinto. Il mare mi salverà.
Sia chiaro una volta di più: non mi piacciono i rimpianti e nemmeno i sentimentalismi, le sdolcinature e i romanticismi. Sempre tempo perso. Ma a volte ci sono cose di cui non puoi fare a meno. Freni e ostacoli sul corso della vita. Voglio un mondo esente da ricatti. Però lasciare le teppe e gli orfanelli mi fa male dentro. Mi arrabbio per questo. Non ci si può far fregare così. Nella casa nuova abbiamo più spazio e più luce. E una stanza tutta per noi, per me ed Ernesto. E nessuno che passa per andare al bagno. Mio padre compera anche la televisione per guardarsi lo sport. Ogni occasione è buona perché vengano i suoi amici a vedersi qualcosa. Tra loro c’è un omone che mi fa ridere perché è rimasto bambino. Non è che ridere sia cosa che faccio spesso. Però mi scoccia avere quell’aria da incazzata. Poi ci ripenso: si chiama Gigio e questo è un bene, ma di cognome fa Vespa e questo proprio non glielo perdono.
La tv cambia la vita. Non la mia s’intende. Io conosco il mondo fuori, non ho bisogno di farmi lustrare gli occhi e giocarmi il cervello, lì seduta davanti. Ernesto sembra un cretino, se non fosse che lo è in ogni caso, a bocca aperta davanti agli spettacoli che di spettacolare non hanno niente. Scappa solo quando arrivano le ballerine in calzamaglia nera. Povero cocco, le donne gli fanno paura. L’avevo detto io che era tutto scemo, e che con le donne non ci sa proprio fare. Magari mi ripeto, ma si sa che i grandi mi fanno questo brutto effetto. La cosa difficile da gestire è che mia madre comincia a star male. Non posso fare a meno di vederla. Devo preoccuparmi per lei. Mio padre non capisce una cippa e mio fratello guarda lo schermo anche quando c’è solo nebbia e le trasmissioni sono finite. I maschi quando c’è da fare sono sempre indisposti. Le donne soffrono in silenzio. Porca puttana non sarà mica che sono nata donna pure io?
Esaurimento nervoso. C’è ben poco da pensare. Qui non si usano strizzacervelli per risolvere i problemi, qui bisogna trovare una soluzione pratica e subito. Allora faccio uscire dal cappello la signora Lina. E’ una vicina impicciona e sguaiata, ma piena di cuore. Con la sua facciona lentigginosa, il seno prosperoso e i suoi monili d’oro tintinnanti, riempie la nostra casa di voci e allegria. Ci porta piatti pieni della sua cucina abbondantemente condita e risana mia madre in un battibaleno. Le guarisce il corpo e l’anima. Anche questa volta me la sono scampata. Come potevo reggere una madre malata? Non si può nascere già orfani in questo mondo, e quelli che lo sono non riescono ad essere felici.
Io voglio essere felice senza per questo ammazzare nessuno dei miei. Almeno ci provo. E poi voglio essere la nipote di mio nonno che di nome fa Sante, ma lo chiamano Carlo. Lui non mi fa vergognare di essere nata in questa famiglia. Io, da questo nonno, mi faccio affascinare. Bella forza, è operaio in fonderia, e in aggiunta l’artista di famiglia; un matto socialista della prim’ora. Mi parla di Nenni e di Lenin come se fossero la stessa persona. Di Stalin no, quello è uno stronzo e io concordo con lui.
E’ un gran giocatore di carte. E scappa sempre all’osteria per giocare e bersi il vino in santa pace. Gli piace la compagnia e piace alla compagnia. Bestemmia e fuma come due turchi messi insieme. Mi accorgo subito che a volte lo provocano apposta. I compagni di partite lo imbrogliano e si fanno scoprire. Si divertono bonariamente alle sue spalle. Lui ride e bestemmia. Ha una gran fantasia e sa inventare le bestemmie più assurde e più improbabili. Le più colorite. Bestemmiatore in grande con il copyright. Le più forti mica si possono riferire. Posso dire che ieri ce l’aveva con un “Gesùbono discolo di padre incerto!” e con “quella santa donna che l’ha raccontata proprio bella a tutti i falegnami!” e ancora con “quel mato fritoin de Betlemme che el slonga el vin!”.4 Me ne sto in disparte a guardarlo senza farmi vedere. E senza farlo sapere a mamma. Lei che è tutta casa, chiesa e obbedienza. A volte lui mi suona il violino e lo fa tenendo lo stuzzicadenti in bocca, che non lascia nemmeno quando mi bacia. Devo starci attenta perché rischia di cavarmi gli occhi. Però certi uomini ci sanno fare con le donne. E non gli so dire di no. Anche se io… beh! non ho ancora deciso se sarò una donna.

Gianfranco Manfredi: Dagli Appennini alle bande [Audio “http://www.fulminiesaette.it/_uploads/musica/rock_mus/G. Manfredi – 01. Dagli Appennini alle bande.mp3”]


1] E’ l’anno in cui muore Jeans Dean.
2] Non si parla d’altro che della conquista del K2.
3] Viene denominata così dagli operai che lavorano alla costruzione del Ponte Littorio, oggi della Libertà, proprio perché c’era un freddo che li faceva pensare alle Isole Svalbard al Polo nord dove si trova una baia omonima.
4] Il “Fritoin” è una tipica figura veneziana che vende pesce fritto.

Baia del re

In Anima libera, Donne, La leggerezza della gioventù, personale on 6 dicembre 2010 at 23:18

Premessa alla parte terza.
Tutto sommato non è che crescere sia indolore. Non per la testa che è lucida fin dall’inizio, ma il problema è il corpo che deve allungarsi e allargarsi e trasformarsi. Ecco quella trasformazione mi dà da pensare. Avete presente Gregor Samsa che si metamorfizza nel giro di una notte? Beh la mia è una sensazione simile. Non capisco bene dove andrò a parare, ma so che non sarà, la mia, una trasformazione fortunata. Il mio terno al lotto. Così per essere nel mondo io ci sto, senza aver mai troppa paura di farmi del male. Se non ci va cauto lui perché avrei dovuto andarci cauta io? Ma le cose che succedono al mio corpo a mia insaputa, mi fanno friggere di rabbia.

Li guardo, i miei genitori, così imbarazzati, con quell’abito dello sguardo sussiegoso, e mi chiedo che ci fanno qui. Come ci sono caduti dentro. Sono estranei, impauriti e offesi. Perché la vera barbarie è il quartiere. Stracci al vento come bandiere. Degrado. E loro che non vorrebbero sporcarsi con le infime storie di queste strade. Poveri piccoli, quasi quasi ci provo pena. Un padre e una madre chiusi dentro se stessi. Abbarbicati nella loro presunzione. Lei: la piccola principessa offesa. Lui: il grand’uomo che vorrebbe sfidare tutti ma non sa da dove cominciare. Li guardo e lo so che già si preparano a scappare. Perché niente hard boiled, nessuna vera avventura, più che Frisco è il Bronx. Più che noir è sporco e calcinacci. Più che sfida è degrado. Malavita e vita ammalata. Un quartiere dal nome altisonante che non gli somiglia affatto. Più avanti quando racconterò dove sono nata mi guarderanno come una sopravvissuta al cancro. Eppure a me piace questa sfida. Io, qui, ci sto come a casa mia. Meglio che con mio padre, solo un ciabattino, ma con il cipiglio del padrone. E qui nessuno è padrone di nulla. Per fortuna.
Insomma non sono tipo da tiranneggiare. Nessuna pietà per gli sfigati. Non c’è tempo in questo mondo per chi non sa che compiangersi. La vita è la mia battaglia, non è la loro. Quella, la vita, corre e chi non corre resta indietro. Nessuno ti regala niente. Ti devi guadagnare tutto. Non sono una principessa. Non sarò mai una signora. Ho tutte le intenzioni di andarmene per conto mio. Di vederlo, il mondo, con questi miei occhi. Non ci ho pensato. Se l’avessi saputo non so se l’avrei fatto. Non che mi piaccia tirarmi indietro. Ma forse non sono mai stata molto egocentrica né abbastanza vanitosa. Fai così, dì colà; che marroni! A fare la neonata non c’è alcun gusto. Ma nessuno può approfittare delle mie dimensioni. Non sono stata certo io a dichiarare guerra all’universo. Per quanto fosse stato lui a presentarsi così male, da mettermi sull’avviso. Certe occhiatacce gliele strapperei dagli occhi; ho buone unghie io.
Cos’è questo mondo? Certo che se ne vorrebbero scappare anche subito. Fortunato chi non ci si sporca per sempre. E’ solo baracche e bagasce. E’ malavita e vita amara. Tutto si affaccia su un’acqua ancora più marcia. Sguardi si incrociano solo per sfidarsi. Le camicie aperte fino alla pancia, per mostrare pesanti catene d’oro tra la selva arruffata. E dove più pare che quel dio si sia scordato di loro più grandi sono i crocefissi aggrappati alla catena. I lampioni accecati sulla notte nera. Le pietre divelte e i muri che trasudano sale. Finestre senza vetri e abitazioni senza finestre. Sembra che qui la guerra non sia finita ancora. Frotte di bambini che scorazzano, col muco che scende inesorabile fino al mento. Gli abiti stracci e gli stracci al vento. Vaffanculo che intervallano le bestemmie.
Sì perché i ragazzini del quartiere sono delle vere teppe, non per niente è la parte della mia città più malfamata e mal frequentata. Non è colpa loro se son nati figli di puttana. Qui non c’è scelta. I bambini sono abbandonati a loro stessi, in strada, e si organizzavano in bande per angariare i meno svegli. Qui si tratta di sopravvivere. Qui si diventa grandi presto. Anche prima di presto. Forse questo l’ho già detto. A stare con i grandi mi rincretinisco anch’io. Spiegavo… figurarsi con Ernesto, quei delinquenti in fasce ci vanno a nozze. Ho il mio bel da fare per tenerli a bada. Finché posso esserci nessuno si azzarda a toccarlo e si guardano bene dal farlo, perché hanno imparato che mordo più velocemente e velenosamente di un cobra. Ma son più le volte che non ci sono. Sono di più le mie prigioni. I giorni del castigo. Non bastassi io. Anche quando le cose non le faccio mi ci affibbiano la colpa. E’ soprattutto quel giuda che risponde al nome di mio fratello. Qualche volta ho portato le biglie di fragna¹, quando me le regala uno zio giovane che vive in casa nostra. Allora le divido con questi ragazzini.
E’ per giocare. D’altra parte mi fanno anche un po’ pena, quei mocciosi. Questo li fa sentire qualcuno. Sono solo degli sfigati che si sentono forti in gruppo e godono solo se fanno del male agli altri. Che non vedranno mai altre strade che queste calli puzzolenti. Senza speranza. Con questa miseria dietro e nel loro futuro. La carogna, mio fratello, sempre taccagno anche di quello che non è suo, non manca di fare sempre delazione con i miei. In fondo anche lui è figlio di questa terra. Ma lui è nato spia. Vigliacco e spia. Così che tornano ogni volta a rinchiudermi di nuovo nel terrazzino. Povero stupido. Non ha mai saputo guardare oltre il suo naso. Fifone com’è nemmeno per la sua incolumità riesce a farsi i fatti suoi. Come quel giorno che è tornato con la bocca insanguinata. Ma lui ha sempre avuto la passione per fare l’angelo. Sempre stato un ruffiano. Come facevano i miei a credergli? Altra conferma che i grandi sono proprio stupidi.
Sono fatte anche di questo le mie giornate. Le donne vivono in strada come regine. Regine senza regno, ovviamente. Escono il mattino con la sedia appresso. E si siedono sulla soglia di casa, gli occhi a controllare la strada e a dar fiato alle voci. Lo scialle, sempre nero, sulle spalle, e i capelli col “cocon”². A parlare sguaiate che le sentono fin all’isola della maggioranza silenziosa³, perché a morire si è sempre in tanti. Muovono le mani su lavori ossessivi: sgranare fagioli, infilare nelle resse le perle, dividere i pezzi dei mosaici, inanellare parole, ciàcole e dicerie. Chiamano i figli come se fossero in un altro mondo. Chiamano anche i figli delle altre. Oppure pregano nell’attesa di quel dio che non c’è. Loro non lo sanno, ma io lo so fin troppo bene.
E poi ci sono i personaggi che frequentano ogni buco maleodorante come questo. Il ragazzino diverso che domani sarà ragazza: Alfio. Chissà che nome ti darai quando nasconderai la prima barba con la cipria e il belletto? Povera bambola di stracci. Io ti ho riconosciuto subito e ti levo dalla ressa testosteronica dei teppistelli, che ti mettono in mezzo, e ti prendo per mano. Gioca con me! Che poi di dolcezze io non sono capace, non è una mia dote. E ti dico, come fanno i bambini: Facciamo che ce ne andiamo via tutti e due da questo posto. E tu fai sì con la testa e le lacrime agli occhi. Qui non si vende la pietà su nessuna bancarella. Ci trovi tutto. Soprattutto il contrabbando. Non quella. Mia madre passa e finge di non vederla la Tosca. Vuole che io la chiami signora Tosca ma quando parla lei dice sola la Tosca. Anche stamattina ha un marito nuovo. Quello vecchio è anche lui in ferie a Santa Maria Maggior4. Non è bella e straripa dai suoi stracci con una risata che mette allegria. E anche l’uomo ride con lei. E le dà una pacca sul culo. Mia madre dice che non devo guardare e mi trascina di nuovo in casa. Come se non sapessi che esiste anche quel tipo di amore. E c’era pure Cicillo che fa di mestiere il malandrino e che a tempo perso parla in Questura. E’ pronto di coltello, ma si fa girare con un dito da sua madre.
Giugliano, proprio così, con la gielle, dicono colpa dell’anagrafe, mi sovrasta di tutta la testa. Ma è un pischello senza coraggio. Mi dice: “Vuoi vederlo”? Lo fisso cercando di stare seria: ha i denti all’infuori, le lentiggini e gli occhi che gli si spengono e mi pare un marziano. “Tesoro! Non mi interesso dei microbi. Non crederai che non ne abbia mai visto uno”? Certo nemmeno il verme di Ernesto mi sembra una cosa di cui andar fieri. Sempre di microorganismi si tratta. Più che deluso, Giugliano, pare annoiato. Forse avrebbe da ridire ma non sa come farlo tenendosi a distanza dalle mie zanne. Se ne va che credo sibili un “Piccola peste”. Quando gli dico Stronzo la zeta assomiglia ancora troppo ad una esse e forse dico ancora Stronscio, ma lui sa bene a chi lo dico e un po’ se ne vergogna. Anche se sono solo una bambina penso che non è certo l’altezza né il sesso che ti fa uomo. Ma che c’è da preoccuparsi? Tutti sanno che nessun ladro ruba a casa propria. Basta non farsi mettere sotto.
Non sono ancora pronta. Il mondo non è pronto. Insomma, è una perdita di tempo cercare di cogliere fiori dal letame. Sono quelli che sono. Non immaginano neanche una vita diversa e non sanno ascoltare le canzoni di Faber. Nemmeno io per quello, non le ha ancora scritte e cantate, ma le ho già in testa. Nel senso che le cose sono nell’aria, basta saperle cogliere. Altrimenti come mi sarebbe venuta l’idea dei fiori dal letame? Che è proprio vero che è solo merda. E queste sono le piccole rivincite sulla loro vita di miseria.
Dovrò aspettare io che non so aspettare. Intanto mi stuprano le orecchie per raccontarmi che: son tutte belle le mamme del mondo. Avessi potuto ne avrei fatto senza. Non che la mia… è solo che quando una donna diventa madre smette di essere donna. Se mai lo è stata. Soprattutto smette di essere persona. Forse il destino alla donna lo segnano con l’atto di nascita. Io non imparerò mai a dire sempre sì. Non ci sarà mai nessun Zampanò nella mia vita. Intanto è cominciata la mia storia. La nostra storia. I francesi le hanno prese e gliel’hanno messo a Dien Bien Phu. Trieste torna in Italia. E lì fuori c’è Scelba ad aspettarci. Cazzo te la faremo vedere, brutto fascista. Il futuro non si presenta con un mazzo di fiori. Ho un appuntamento con la storia, io. Io sono pronta. Lo farò diventare rosso questo avvenire. Io che sono la rossa e scuoto i cappelli come una bandiera.
Devo sembrare proprio un piccolo mostro. Ed è così che voglio che mi vedano. E molto più bello sporcarsi quando si è puliti. Anche se questo vale un’altra reclusione. Sì! lo so bene che un giorno prenderemo quel battello e non sarà per tornare. Tanto per dirla in canzonetta: la barca tornò sola, anzi in questo caso proprio non tornò mai più. E allora… “Fatevi sotto”!


1] Terracotta.
2] Chignon.
3] San Michele, dove c’è il cimitero.
4] La prigione veneziana.

Nessuno mette una bambina in un angolo

In Anima libera, Donne, La leggerezza della gioventù on 30 novembre 2010 at 18:56

Foto BN: la neonata Ross in braccia alla mamma in battelloPremessa alla seconda parte:
Se ho quell’aria accigliata una ragione pure ci sarà. Nemmeno il tempo di aprire gli occhi e trovi la sensazione di aver sbagliato ruolo, momento, tempo, mondo. Ti guardano come un fenomeno. Con dispetto. Con quel sorriso. Con sorpresa. Con delusione. E poi non ho mai amato farmi fotografare. E ancora meno che gli altri parlino di me. Non ci vuole certo molto a farmi scaldare, vorrei vedere voi al mio posto. Gli occhi di mia madre che hanno già quell’espressione. Che sembrano implorarmi di stare zitta. Di risparmiarmela. Se il mondo mi dichiara guerra non sono certo io a tirarmi indietro. Per quanto mi riguarda meglio mettere tutto in chiaro subito: voi cominciate a tremare.

Mica nasco principessa, me ne accorgo subito. Quel gran padre, così preso dalle sue cose, altro non è che un ciabattino. Un tiranno con pochi sudditi da tiranneggiare e col sospetto per questi miei capelli rossi, così… diciamo così sospetti. Io da parte mia mi son data da fare. Il problema non è stato tanto nascere, ma trovarmi in un mondo che non ha idea di dove sta andando. Questa è la scocciatura. Sapere di doverlo drizzare e darci un costrutto. Tutto a me tocca fare! Che poi quando apri gli occhi e si presenta quel fratello… ti cadono le braccia. Se ho pensato di poterci contare per avere un contributo è stato tempo perso, lui è solo in grado di cercare di sostituirmi al seno materno. Che cavolo! Non può prendersi un bicchiere di sano latte vaccino? E poi non è esagerato quell’eccessivo attaccamento alla mamma? Edipo non risolto? Ma guarda se devo preoccuparmi di lui con tanto che ho da fare. Che poi se vuole il latte di mamma io glielo do. Una bella vomitatina e via. Magari non dal produttore al consumatore direttamente, come avrebbe preferito, ma per interposta persona. Che a far le cose a volte mi mette allegria. Vomitargli in testa e vedermi vicino Padre Vattelapesca nell’atto di esorcizzarmi mi ha fatto scompisciare dal ridere. E lui giù a piangere. Ah, questi fratelli che lagna! E poi la casa è piccola, troppo piccola. Non ci stiamo in tutti, soprattutto non ci sto io che ho bisogno di aria e di silenzio per pensare. Comunque a guardare Ernesto tutto pieno di vomito e disperato quasi quasi mi pare più carino, più sopportabile.
Beh! passiamo alla seconda parte perché il tempo passa ed io c’ho da fare.
Nella foto sembro dormire, tra le braccia di mamma. Una bambina normale, mica un’assatanata. Ma ho detto sembro non che lo sono. La cosa importante, come già detto, non è solo nascere, ma vivere in un mondo che non ha idea di dove sta andando. Ovvio che le prime cose da drizzare stanno in famiglia, soprattutto quel fratello senza qualità. La convivenza con lui è a dir poco oltraggiosa. Quello non accetta che abbia già le mie idee in fatto di stare al mondo. Lui contratta con mia madre di chiudermi nel cassetto del comò o di ficcarmi e dimenticarmi dentro all’armadio. Mia madre non gli dà ascolto completamente. Credo che qualche volta ci abbia pure pensato, se non altro per non sentirsi così osservata e a disagio con me. Fossi una tiranna! Intanto avesse chiuso lui, così me ne liberavo una buona volta! Poi tutto sommato a parlare di lui si spende solo tempo e fatica. Io so di essere nata figlia unica, malgrado Ernesto e gli altri tre bambini rossi che ho preannunciato per vendetta. D’altra parte mica tutti nascono con l’impronta della ribellione, no? Che poi nel caso mio non è un semplice segno fisico innocente come una voglia sul polso. A guardar meglio sembro un essere che ha tradito il suo bagaglio genetico. Una mutante.
Comunque, mi rendo conto che non è facile sopportare le mie autonomie che non promettono niente di buono. E mia madre non sa proprio da che parte prendermi.
La prima volta che si distrae e mi lascia zompettare da sola, finisco diretta e spedita dentro al mastello del bucato, pieno d’acqua e sapone. In verità come l’ho visto mi ci sono buttata con voluttà, ma senza secondi fini. Non ha niente a che fare con la ribellione che mostro io e che avrebbe mostrato in futuro la mia generazione. In questo momento è prevalso in me il gusto dell’esperimento. Il piacere di fare qualcosa di nuovo ed eccitante. Non mi ci vuole molto a capire che l’acqua sarà sempre l’elemento naturale che mi ci vuole un po’ come la libertà e la giustizia che mi sono necessari per sentirmi viva. Ovvio che mi sono opposta strenuamente quando sono venuti a togliermi di là. Ma lasciate un po’ vivere questa povera bambina! appena uscita è già così controllata. Nell’acqua sto come il pisello nel suo baccello. Comunque non me ne sarei mai uscita dal mastello ci stavo che era una meraviglia.
Ernesto ride di me e io lo snobbo perché a giocar con lui non ci penso proprio, non lo farei per tutto l’oro al mondo. I suoi sono giochi insulsi, privi di mordente, mentre io già voglio l’avventura, voglio la strada e l’imprevisto. So già cosa diventerò. Mia madre nicchia. Teme, e a ragione, che in strada, con gli altri ragazzi del quartiere, potrei capeggiare presto una banda. E’ sempre stata quella la mia indole. Non corro mai per i secondi posti. Gli altri sembrano tenermi a debita distanza. Anche se sono solo questo soldo di cacio. Anche quelli che mi sovrastano per età e per altezza, proprio come il fratello che mi è capitato in sorte. Perché mica ho potuto scegliere, lui già c’era e a malincuore ho dovuto farmene una ragione. E il quartiere è quello che è. King’s bay mi affascina moltissimo, ma per gli adulti sembra una giungla piena di pericoli. Ma che ne sanno loro dell’avventura? Come sempre dovrò spiegarglielo io.
Mia madre ha la strana sensazione che il mio essere bambina non limiti i miei movimenti e le mie ragioni, così mi chiude nel terrazzino, come un felino in gabbia a guardare il mondo tra le sbarre. Pensandoci bene non devo essere un bel vedere piegata sulle ginocchia con la gonna tirata su sulle gambe e le mutande in bella vista. Nemmeno il mondo è granché, spiaccicato lì sotto. Con quei ragazzini, che sembrano dei nanetti da giardino, che ci giocano liberi e guardano con la testa all’insù i miei mugolii d’animale ferito. Avrei potuto invidiarli sennonché so che da lì evaderò presto. Mi avvinghio alla ringhiera che fa le sbarre della mia prigione. Sono certa di poterlo dirigere, quel mondo che è fin troppo piccolo. Mutande all’aria e digrignamento di denti evidenzia la mia voglia di uscire e di possedere finalmente un paio di pantaloni.
Sono decisa come so essere decisa io sempre. Non proprio una bambina ma già un piccolo essere libero. Le idee ben chiare in testa e la testa già un cespuglio di capelli rossi. Tanto faccio e tanto ringhio che giocoforza mia madre si piega: mi cuce un paio di pantaloncini a pagliaccetto che odio fin nel profondo dell’anima e mi consegna alle cure di Ernesto per tenermi sotto controllo nel cortile di casa. Questa è bella! il controllato a tener sott’occhio il controllore. E’ da vedersi. Lui non è tipo da mettersi nei guai ma questi, i guai, sanno sempre trovarlo. I bambini sono così, vedono da lontano chi l’ha scritto in faccia il destino di vittima; l’annusano. In fondo hanno una loro semplicità nelle cose e una loro crudeltà. Sono radicali e tutti lo prendono a bersaglio di lazzi e dispetti e qualche volta pretendono di prenderlo a botte.
Me ne potrei anche fregare. Ma è, in questo momento, la sola possibilità di uscire in strada. E poi, per la miseriaccia, è pur sempre mio fratello. Nessuno me lo può toccare, tranne la sottoscritta. Ci devo buttare un occhio e riportarlo a casa aggiustato perché ogni ematoma e botta è sempre colpa mia. Se torno pesta, lui fa il santarellino. Sono caduta da sola. O mi sono messa a correre come una scema. Dà della scema a me… Tze! E’ sempre bravo in questo. Insomma… alla fine… vuoi per necessità e vuoi per orgoglio questo fratello sciocco non me lo devono toccare. Dove non può la mia forza può la rabbia, mani e denti e come capita, divento una belva, una vera furia. Credo che qualche segno dei morsi se lo portino a spasso ancora. Buona son sempre stata, mi pare chiaro. Ma quando c’è da lottare, soprattutto per una buona causa, o anche una causetta come lui, non sono mai capace di tirarmi indietro. Ricordo quella volta… ma non precorriamo i tempi, anche questa arriverà. Intanto la presunta iena impara a misurarsi con quello che ai suoi occhi è giusto e quello che non lo è. Insomma la bestiaccia comincia anzi comincerà a crescere dalla prossima puntata.

18 maggio 19..

In Anima libera, Donne, La leggerezza della gioventù on 24 novembre 2010 at 12:06

Rossaura in una foto BN quando era era bambinissimaIo sono nata il 18 maggio 19.. (scusatemi la civetteria al femminile). E’ per tutti un giorno normale. Già! non c’è ancora la televisione. Mica possono darne notizia. Allora le cose erano vere e non era necessario fossero trasmesse in tv. E anche i giornali erano un lusso. L’Italia ancora non era il paese felice che ci sembra oggi. Non aveva ancora un principe cantante e per venir fuori dalla palta ci si doveva dar proprio da fare. Non ci voleva molto a capirlo, bastava guardarsi in giro. Così la mia nascita sarebbe passata quasi sotto silenzio. Senza fanfare. Senza bandiere.
Intanto il paese è attraversato da una calma piatta. Sono anni bui e giorni movimentati. Tutti gridano e gridano i giornali: «A Caltanissetta, la Celere disperde un capannello di persone che, in piazza Garibaldi, ascoltano il giornale parlato del “Blocco del popolo”, riguardante il processo di Viterbo e le dichiarazioni di Gaspare Pisciotta. E’ disturbato anche un comizio della comunista Nadia Spano a Siracusa. E’ arrestato a Milano Primo Borghini, componente della Volante rossa. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU condanna Israele per l’attacco alla Siria, e ingiunge allo Stato ebraico di far rientrare gli abitanti espulsi». Era ora, dico io, dopo più di tre anni di guerra. La forma delle notizie è presa naturalmente da Wikipedia. Come potrebbe essere diversamente oggi, nell’epoca della rete. Ma le ricordo bene. Dico io, una non può nascere tranquilla. Il mondo non è ancora pronto. Forse nemmeno la mia famiglia è proprio pronta a ricevermi. Eppure avevo avvertito da circa nove mesi che stavo per arrivare.
Loro mi guardano con occhi allibiti. Forse non vogliono una bambina. Anzi ne sono certa. Anche se pare una bella fortuna fare la coppia con un numero così esiguo di tentativi. Il primo è nato maschio, come si conviene in ogni famiglia che si rispetti. Che poi maschio o femmina per me è sempre stato un problema secondario. Almeno mi pareva ininfluente. Comunque sono nata proprio io. C’era da immaginarselo. E non gli ho dato soddisfazione: piuttosto che piangere ho preferito da subito digrignare i denti. Doveva essere chiaro e non lasciare dubbi. E c’è un’altra cosa strana, anche se, se ne sarebbero accorti un bel po’ di tempo dopo: sono rossa. Indubbiamente rossa. Indiscutibilmente rossa. Inaccettabilmente rossa.
Cosa c’è che non va in me? Cosa fa storcere il naso ai miei famigliari? Mio fratello ha giustamente i capelli scuri. Nessuno è rosso in famiglia, né mamma né tanto meno mio padre. Sembro un ufo per quanto il concetto di oggetto non identificato sia loro sconosciuto. Sicuro è che i loro sguardi sembrano accusarmi. Nei loro occhi c’è sospetto e incredulità. Sembro sbagliata. Sono certa che i due bambini che zompano maleducatamente nel cortile comune non hanno nulla a che fare con la nostra famiglia. Senza negare che a mia madre i rossi fanno impressione. Che a dirla tutta, guardando me, si sente in colpa. Sono sua figlia e non le piaccio proprio per niente. Lei l’ha sempre detto che sono bruttini. Che i rossi… Ora non può rimangiarsi quello che ha detto anche ai vicini. A parte il promettere di diventare bruttina, già ero diversa prima ancora di affermarlo. E’ stato così che ho deciso che se avrò altri fratelli saranno tutti rossi. E con i rossi, si sa, non è facile trattare; lo sanno tutti, persino la saggezza popolare. Comunque così ho già messo in chiaro le cose. Fin da subito. Una volta per tutte. Non mi potranno dire che… non lo sapevano. Ma neanche che erano impreparati. Potevano capirlo, ma sembrano far finta che il problema non sia loro.
Eppure sembra tutto così semplice. Io sono io. Le mezze misure non mi piacciono. Tutto sommato farò sempre i conti con la mia incapacità di scendere a compromessi. Mica che non ne accetterò. So bene che sarà impossibile, ne andrebbe della mia sopravvivenza… ma adattarmi, che fatica! Che poi alla fine è una inutile fatica perché prima o dopo schizzo fuori come da una pentola di acqua bollente. Per esempio io non imparerò mai  a dire bugie. Per me le cose sono come sono. Sono certa che ne sono già al corrente, anche per quel nome che mi hanno legalmente attribuito. Certo poteva essere semplicemente un caso. Che poi se fai un figlio lo battezzi con un nome che significhi qualche cosa. Così almeno credo io, ma forse mi sbaglio. Glielo avrei anche detto, solo che ancora non parlo come loro. Benedetta ignoranza degli adulti. Quando una bimba nasce te li trovi lì, e sembrano capire tutto di te. Le somiglianze. Il destino. Sono loro i grandi e sei tu che devi imparare la loro lingua, il loro stupido modo di comunicare.
Mio padre poi mi ha sempre preso sottogamba. “E’ nata una femmina? Un’altra seppiolina!” Con quello mi ha marchiata. E a fuoco, direi io. La cosa mi dà un casino di fastidio. Mi brucia proprio sulla pelle. Dire a me che sono un pesce tra tanti e che per di più lascio in giro una scia di nero, per l’appunto “seppia”… Insomma questo già me la sono appuntato. Io non sono una seppia. Io glielo farò vedere bene cosa sono. Certo che a dirla così mi si potrebbe prendere per una presuntuosa. Cosa che per la verità non è nel mio stile. A rigor di logica non dovrei nemmeno chiedermi cosa voglia dire essere bambina, femmina. Tanto meno cosa significhi essere femmina in mezzo a tante. E in verità non vorrei nemmeno sapere. Sono qui per spiegare a tutti che non sono né maschio né femmina e che non mi si deve confondere. Io sono solo persona e la persona che sono. E tanto per cominciare che mi levino queste scarpette rosa ridicole. E si tengano pure i sonaglini e queste loro paroline incomprensibili, mica hanno a che fare con una mentecatta. Insomma io sono solo realista e se devo essere sincera, mica me li sarei mai aspettati così sprovveduti e impreparati.
Mia madre, quella santa donna, mi guarda con occhi incerti e apprensivi; come sempre rattristati. Lui, quel padre, non si è nemmeno fatto trovare all’appuntamento. Io arrivo puntuale, vado direttamente a casa e lui nemmeno c’è. Che impreparazione. Che poi non sarà l’unica volta. Io intanto, anche questa me la sono segnata. Tutti i nodi verranno al pettine, prima o poi, e so che in qualche modo la sconteranno. Anche se non gli ho promesso una vera vendetta ma segnarmi “la pagherai e ti costerà cara” ha il sapore di un piccolo editto; di un impegno. Non è solo un banale slogan politico. Mi ero impegnata a sistemare fin da subito quella vita. Non posso rimandare quello che va fatto. Ho bisogno del mio spazio e della mia autonomia. Mica basta dipendere per un cambio di pannolini sporchi. Se era per me l’avrei detto subito: “faccio da sola!”.
Mica è colpa mia se ci sono difficoltà di comunicazione. E poi non sopporto questi ritmi. Le poppate all’ora stabilita. Ma chi l’ha stabilita quell’ora? E poi le ingiustizie, mica le puoi avere sotto gli occhi, e stare zitta. Non devono parlare di me senza di me, senza la mia partecipazione. Un attimo di tempo suvvia. Poche pippe. Lasciatemi per cortesia il modo di organizzarmi. E’ stressante. In questo mondo c’è fin troppo da sistemare. Bisogna cominciare subito, e dalle cose minime e più immediate; indispensabili. Gli impegni non mi hanno mai messa in ginocchio. Anzi la lotta mi dà l’adrenalina. E se mia madre fa la vittima non ho intenzione di farlo io. E se lei ama farsi compiangere io preferisco compiangere e lottare perché la mia filosofia è: “la miglior difesa è l’attacco”. Meglio una donna risoluta che essere assunta come domestica, ancor prima di cominciare. Poppo latte e autodeterminazione. Magari non sono ancora una vera marxista e il mondo non è solo bianco o nero cioè rosso. Sia detto per inciso che considero già l’uso del biberon molotov. E alla tetta preferisco… beh! lasciamo andare, sarei troppo piccola per pensare già al bello della vita. Comunque preferisco il dito.
Non che provi solo rabbia, anche se…. Che poi di seno sono stata sempre scarsa fin ad oltre la mia maggiore età. Ma di certe cose se ne può fare a meno. Poi arriva un momento che capisci che può esserti utile. Allora decidi. Lascia che cresca pure quello, che male non fa. E ti trovi con un paio di tette che non sono né troppo piccole né troppo grandi. Giusto per non dover invidiare niente a nessuno. Dal punto di vista fisico mi voglio organizzare due o tre cosette, niente di speciale. Innanzi tutto una faccia che non lascia adito a dubbi. Tanto per far capire subito che non ho tempo da perdere in fronzoli inutili. Due occhi che parlano ancora prima che lo faccia la mia bocca. E poi ancora questi capelli usati come una bandiera.
Mio padre, come già detto, non ne azzecca una. Assente quando deve esserci e presente quando tutti potrebbero farne a meno. Poi mia madre, la vittima predestinata, grande narratrice di silenzi. Così fin da subito ho deciso che in famiglia un ordine lo devo fare io, altrimenti nessuno ci pensa. Escludo a priori mio fratello, il primo nato, fin dall’inizio un inetto. Più grande di me solo perché nato prima. La testa da… da… insomma da neonato, e neonato per di più maschio. Nato per rompermele e per essere geloso. Di cosa, mi chiedo, che non abbiamo nulla. Lo guardo torvo e lui, pensando di dispiacermi, mi ruba il ciuccio. Ci vuole ben altro per preoccuparmi. Mai stata capace di prendermi una brutta abitudine. Per me niente ciuccio, niente alcool, niente fumo e tanto meno spinelli. Robe da ragazzini. Ma basta alzi la voce che me lo restituisce, con quegli occhi da non sono stato io. E’ facile prevedere che non combinerà mai niente di buono. Se un uomo pensa che basti una cuccia per conquistarti dimostra da subito che non capirà mai nulla delle donne. E’ destinato ancor prima di cominciare ad essere vittima e servo. E poi a guardarlo bene non sembra avere gli occhi così svegli. Non posso certo contare sul suo di aiuto. Così quando comincio a usare il suono della mia voce non è certo per dare una bella prova di canto né per intrattenere la platea. Non sono solo urla minacciose ma già le mie giuste e sacrosante rivendicazioni: “libera in un mondo di liberi”.
Il problema è che fin dai primi giorni mi son fatta fregare dagli slogan che si stanno preparando nell’aria; cose come: l’amore libero. Io sarei d’accordo, come si può non esserlo, ma che cavolo vuole dire? Mica mi è chiaro. In fin dei conti non ho che pochi giorni. Cosa vuol dire ancora non lo so. Uno può essere convinto e abbracciare una giusta teoria anche se è una schiappa con la pratica, no? Io il cuore ce l’ho, qualcuno dice che ne ho fin troppo. E il troppo, come si sa, stroppia. Chi ne ha troppo, di quello, è sempre come una barchetta in un mare in tempesta. Tu dai e gli altri si prendono e poi si prendono anche quello che non dai. E’ una legge di mercato, semplice semplice. Così il mio fratellino si ciuccia il mio ciuccio e a me non resta che succhiare assieme al mio dito pollice pure la rabbia che gira nell’aria. Forse, come detto, sarà proprio questo la causa di tutto. Questo fratello inadatto spera di togliermi il coraggio con le sue sopraffazioni ed io divento sempre più radicale: mi batterò per i più deboli; sempre. E’ questa la mia missione.
Mi capiterà di imparare, successivamente, che a prendere a schiaffi il mondo da sola, un po’ è anche come prendere a schiaffi me. Non accetterei comunque mai di essere un’altra. Non che non ci sia di meglio. Ci sono certe mammolette piene di moine. A quelle si perdona tutto. A me fanno un po’ di ribrezzo. Mai che si possa fare una bella scazzottatura con loro. Ché a fare a pugni non è cosa da bambine. Io, ad essere bambina, ci ho rinunciato da mo’. Ma poi chi l’ha detto che basta una faccia da fesso per fare un maschio? Magari, come dirà lui: vinci qualche battaglia ma perdi tutte le guerre. Ma l’importante è combattere. Meglio se dalla parte giusta. Peccato non sia quasi mai quella del vincitore.
Tanto per la storia chiamerò questo mio fratello Ernesto, perché chiamarlo con il suo vero nome mi sembrerebbe una parolaccia. E’ offensivo per tutti quei poveretti che hanno avuto in destino la sfortuna di vedersi imporre lo stesso nome senza avere nessuna colpa. Per di più sono convinta che nessun nome dovrebbe essere imposto senza l’avvallo del suo possessore. Soprattutto quel nome. Primariamente perché in Italia la monarchia è assente da un pezzo. Persino lontano dall’anno della mia nascita. Senza scordare che nessuno nasce più re come nessuno nasce suddito. Ora capite perché quella bambina, ritratta nella foto il giorno del suo genetliaco, ha deciso fin da allora che da grande avrebbe tenuto un blog? E che non le avrebbe mai mandate a dire?