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L’abito non fa solo il monaco, ma anche il Papa…. Francesco d’Assisi sul mercato

In amore, Anomalie, Cultura, Donne, Economia, Giovani, Informazione, politica, Religione, uomini, Vaticano on 18 marzo 2013 at 10:46

le pecore del pastore

Francesco d’Assisi sul mercato
ovvero : L’ABITO NON FA SOLO IL MONACO MA ANCHE IL PAPA
(di Bruno S.)

Oggi stavo guardando le immagini televisive sulla prima apparizione domenicale del novello Francesco. Tenendo ferma l’evidenza del ruolo decisivo dell’ideologia religiosa cattolica nella costruzione di un modello di rapporto uomo/donna da diffondere come “valore universale”, e ( all’ interno di questo ) della funzione centrale della “sacralità” del matrimonio per la codificazione dei “valori” della “famiglia” , mi stavo chiedendo su che cosa sia fondata la “credibilità” o il “carisma mediatico” ( per le moltitudini dei “fedeli” riuniti in trepida attesa di una buona novella ) del messaggio di un Padre Padrone che si presenta travestito da amico dei “poveri”, come un Francesco d’Assisi redivivo, utilizzando ( quale metafora del “rinnovamento”! ) il linguaggio quotidiano della gente , mentre è perfettamente cosciente di essere a capo di una struttura globale di potere economico che sostiene e alimenta proprio la produzione di massa della povertà a livello planetario. Il doppio volto della carità cristiana, divenuta nei secoli una fonte inesauribile di potere tramite la pratica delle elemosine.
Scrivendo queste righe, mi rendo conto di che cosa voglia dire essere nato, cresciuto e diventato vecchio dentro una tradizione “non cristiana”, ai margini di una preponderante società cristianizzata ed imbevuta del mito del dio fattosi uomo per la salvezza dell’umanità. Al mio paese ( Biasca, Cantone Ticino, Svizzera ) esisteva una tradizione non cristiana secondo la quale le persone defunte, vissute sempre senza mai aderire al cristianesimo, venivano seppellite con il simbolo di un cuore ( scolpito in legno, chiamato ” tap ” nel nostro dialetto ), proprio per distinguerle, anche da morti , dalle persone sepolte con il simbolo della croce. Una tradizione ormai scomparsa di fatto, ma che riguardava una parte significativa di famiglie. Mi sono spesso chiesto come mai questo bisogno di distinguersi dai “cristiani” avesse avuto senso anche dopo la morte, dentro una piccola comunità contadina. Negli anni giovanili avevo anch’io seguito l’interpretazione che la spiegava con “l’anticlericalismo”, quello che poi il movimento socialista da fine Ottocento aveva anche presentato come ideologia “laica”. Ma siccome fin da molto giovane avevo sempre pensato di non aver alcun bisogno di negare l’esistenza di un dio, ( per dare senso alla mia vita la definizione di “ateo” mi sembrava un non sense ), sono stato portato a pensare che quel bisogno di distinguersi dai cristiani fosse da considerare la pura e semplice testimonianza e riaffermazione di un diritto alla libertà di pensiero, proprio di fronte ad una forza contraria, preponderante ed oppressiva, che cercava, attraverso la Chiesa, di imporre una determinata interpretazione del mondo. E non certo per il gusto di aver ragione, ma solo perché il “controllo” del pensiero delle persone a proposito “del bene e del male” era socialmente decisivo per far accettare le condizioni materiali e le regole che codificavano l’esistenza delle disuguaglianze sociali. Quindi per uno scopo di “potere”.
Seguendo questa interpretazione, oggi, e per tanti altri motivi, credo che sia assolutamente fondamentale porsi la domanda di quale sia il ruolo della Chiesa cattolica nel diffondere criteri interpretativi su tutta una serie di problemi della vita associata, non in quanto “chiesa organizzata per la gestione della religione” ma in quanto struttura mediatica organizzata, in grado di utilizzare l’ideologia cristiana per condizionare le percezioni del reale , della vita in tutti i suoi aspetti quotidiani. Fra tutte le ideologie, quella cristiana ha l’enorme vantaggio di riuscire a far credere di essere depositaria anche di una risposta relativa alla morte, ed alla vita dopo la morte. La “sacralità” dei “valori” promossi ha il suo fondamento in una teologia che, fra le altre cose, ha sempre dedicato uno spazio privilegiato al ruolo della donna attraverso l’immagine della Madonna , la madre di dio, cui si lega l’intera costruzione dell’immagine del dio salvatore, e la stessa funzione del concetto di Trinità. Che questo modello teologico sia nel contempo un modello per l’interpretazione del rapporto uomo/donna, e che sia oggi veicolato non solo dalla Chiesa ma da una infinità di media, pervasivi della vita quotidiana, è il tema su cui bisogna riflettere.
Che tutto questo sia ANCHE un insieme di “valori” che esprimono un punto di vista “maschile” è altrettanto indubbio. Ragione per cui le lotte per l’autodeterminazione del “corpo delle donne” hanno una precisa funzione di denuncia. Ma a me sembra sempre più evidente che non basti rivendicare la necessità di un punto di vista “femminile” sull’intero arco dei problemi personali e sociali, perché ciò che costituisce il punto di forza del modello che abbiamo di fronte è la RELAZIONE tra i due sessi, sono le caratteristiche DEL RAPPORTO tra i due sessi, attraverso cui sono veicolati i cosiddetti “valori cristiani”. Quel rapporto è condizionato dalla “sacralità” che gli si attribuisce, e che discende dal mito della Trinità come struttura fondante della vita. Bisogna abbattere le fondamenta di questo mito se vogliamo costruire e diffondere un diverso modello di relazione, per l’uomo come per la donna. Senza dimenticare che tutti i cosiddetti ruoli “naturali” ( o biologici )dei due sessi, sono in realtà pervasi dall’ideologia di cui stiamo parlando, e sono invece spesso venduti come se fossero determinati da leggi divine.

(da un commento al post Da donna a donna di Bruno S.)

Una grandissima carota per i “choosy”

In Anomalie, Cultura, Disoccupazione, Giovani, Informazione, La leggerezza della gioventù, Mala tempora currunt on 13 novembre 2012 at 17:50

Per governare un paese oppure per poter giustificare le inadeguatezze di una classe politica e dirigente di un paese, bisogna avere il naso lungo e/o una grande faccia di bronzo.
Parlando, i nostri politici, gustificano l’incapacità loro di uscire dal pantano di una crisi economica che è crisi di sistema, quello liberista per intenderci (sistema che non abbiamo creato noi e al quale ci siamo adattati in tantissimi a malincuore) le nostre pretese e i nostri diritti di lavoratori, che ci siamo guadagnati in tanti anni di lotte. Non si tratta di una nostra gravissima responsabilità: non ce la siamo spassata, non abbiamo voluto un reddito che andava al dilà di quello che ci meritavamo, e se abbiamo comprato un sacco di merci che a seconda di chi ci parla o avrebbero fatto girare l’economia oppure sarebbero stati nostri capricci relizzati. Insomma se alla fine  siamo ridotti così dite che è colpa nostra e per nostra e noi,  intendo la classe dei lavoratori. Una volta si chiamavano proletari, ossia quelli che avevano prole, ma col tempo sono diventati solo consumatori accaniti di tv a colori, auto, telefonini e amennicoli elettronici vari. Per la vostra grande gioia, comunque e per i vostri guadagni. Comprare quelle merci che si poteva semplicemente firmando cambiali ed ottenendo finanziamenti generosi  e mutui dalle banche. Ecco, noi siamo gli ex proletari spreconi, che hanno ridotto al lastrico questo paese e che hanno dato i natali a questa razza di “schizzinosi” che vogliono lavorare senza sporcarsi le mani ed essere valorizzati per quello che hanno studiato. Ecchecazzo no! Bisogna prendere quello che arriva ed è davvero da schizzinosi non raccogliere le cassette da 500 kg. di pomodori al lauto rimborso in nero di 3,00 euro alla cassa per poter arrivare a fine giornata con il guadagno di ben 30,00 giornalieri. Ebbeh, con le vostre manine da studentelli cosa sperate, forse che la cultura vi dia da mangiare?
Vi hanno raccontato che i vostri genitori hanno scialato e adesso aspetta a voi tirare la cinghia. Vi hanno detto che sono stati questi genitori insensati a mangiarsi il vostro futuro eppure voi li avete visti alzarsi presto al mattino, imbucarsi nei loro laboratori, case, fabbriche, negozi, uffici e tornare a casa a volte stravolti di stanchezza, con nemmeno la voglia di consumare se non di preparare la cena. E siete stati voi ad essere consegnati alle mani amorevoli dei nonni, per chi era fortunato, oppure a qualche ragazza alla pari, alla baby sitter oppure al nido (che anche quello pubblico si portava via più della metà dello stipendio di vostra madre). Eppure avete visto che si cercava di risparmiare su tutto: il supermercato più economico, i discount, le luci spente dietro le spalle, le finte-griffe e così via per illudersi che pure noi si poteva… e invece no non si poteva e non si sarebbe dovuto potere.
I soldi per il mutuo della casa, perchè era l’unico modo per poter vivere tranquilli e sicuri in un posto senza esserne cacciti. I soldi per la scuola dei bambini (due al massimo, uno meglio e zero ancora meglio). Già, allora c’era la scuola pubblica, adesso è un po’ diverso, ma non è che costava meno, Ogni anno tra i 500,00 e i 600,00 euro solo di libri, senza contare tutto il materiale didattico necessario, persino la carta igienica e quella delle fotocopie perchè la scuola è un’azienda ed è proprio per questo che non deve sborsare una lira. E la salute, che se ce l’hai è un gran bene, perchè se ti manca sei proprio rovinato in tutti i sensi. Anche l’ospedale è un’azienda privata che funziona meglio se sei tu a pagarla due volte.
Insomma volete un futuro cari schizzinosi di oggi? Chiedetelo a quella massa di festaioli invertebrati dei vostri genitori che se nel tempo non ci hanno pensato, oggi a voi non possono che presentare delle sentite scuse.
Eh no, cari signori dell’economia e del governo globale, gli uomini e le donne che hanno cresciuto i loro figli non ci stanno più. Non hanno sensi di colpa e sono incazzati neri, perchè non solo hanno dovuto sottostare alle vostre leggi di mercato e del lavoro, ma oggi devono svendere se stessi, il loro futuro e puranco quello dei loro figli.
Perchè noi abbiamo lavorato come dei muli. Abbiamo pagato le tasse. Abbiamo costruito uno stato sociale che se era per voi ce lo saremmo sognato. Abbiamo prodotto quel surplus di merci e di profitti che vi hanno ingrassato ben bene. Abbiamo consumato come dei forsennati perchè era solo così che si permetteva alla vostra economia di girare. Abbiamo passato notti insonni a cercare di risolvere i nostri problemi e quelli dei nostri figli. Li abbiamo fatti studiare in una scuola che voi avete reso superficiale ed ignorante. Abbiamo difeso con gli scioperi i nostri diritti altrimenti ci avreste reso schiavi delle vostre macchine. Abbiamo pagato la nostra cultura e quella dei giovani per non dover ancora subire nell’ignoranza e nell’incapacità di tenervi testa. E oggi che fate? Ci sputtanate con i nostri figli e sputtanate i nostri figli ai nostri occhi?
Senta cara ministra “choosy” ci sarà lei e tutti quelli come lei che non hanno mai tirato la carretta. Senta caro presidente non è colpa del costo del lavoro e del sistema pensionistico se l’Italia fa acqua da tutte le parti, ma delle sue aziende preferite che si chiamano banche e anche e non se lo dimentichi che il lavoro ci aspetta di diritto, visto che questa Italia è basata davvero solo sul lavoro e per fortuna noi sappiamo lavorare.
Se avevate bisogno di schiavi potevate nascere all’ombra delle palme prima che venissero costruite le piramidi, che forse era l’unico tempo che avreste gradito, sempre che foste voi e solo voi il faraone di turno.
Ai nostri figli infilate la carota dove va bene e pretendete che la sopportino con il sorriso sulle labbra. Le uniche promesse per i giovani che vengono mantenute sono le nostre, quelle di pensare a loro fino alla fine dei nostri giorni. Finchè un futuro venga dato loro e quel futuro, purtroppo, è fatto dei nostri piccoli risparmi e della nostra inconsulta abitudine a risparmiare per i tempi di carestia, non dalla vostra lungimirante previsione economica e dai vostri sacrifici personali o di classe.
Se qualcuno non è mai stato toccato questi siete voi e i vostri capitali ben nascosti. Se è il bastone e la carota il vostro mezzo di comunicazione, temo proprio che un giorno potreste pentirvene. Non certo per un’ Italia mandata in bancarotta, o perchè il bene per il vostro paese non è nelle vostre note , ma unicamente per il fatto che se mai troveremo il modo di tornare in possesso di quel bastone e di quella carota, magari prima o dopo potremmo farvelo assaggiare solo per il gusto di restituirvi il piacere.
Potreste dover assaggiare una grandissima carota e questa volta destinata solo a voi cari choosy di Stato.

Se non posso ballare non è la mia rivoluzione

In Donne, Giovani, Nuove e vecchie Resistenze, Parola di donne on 5 novembre 2012 at 1:11

L’hanno chiamata la rivolta dei gelsomini. Bel nome vero? Fa pensare al profumo dei fiori e a giovani donne sorridenti che vogliono cambiare il mondo. Ma non è così. La rivoluzione non è cosa da donne, non qui, non nella mia terra.
Perchè ribellarsi se poi non cambia niente? Io sono donna in un paese che vuole rinascere, ma un paese per soli uomini, per me non c’è cambiamento. Non c’è modo di cambiare la mia realtà.
A casa mia siamo due sorelle. Mia sorella ha 25 anni, due figli un altro in arrivo. Non lavora se non in casa. E’ cambiata, non è più lei. Non ha più tempo per le nostre chiacchere, per i sogni. Mia madre è un’ombra sul muro di casa.
Io ho studiato, faccio l’avvocato e lavoro in uno studio del centro. Il mio ragazzo fa la guida turistica e a febbraio ci sposeremo. Ma io ho paura. Lui mi dice che a febbraio io smetterò di lavorare, ci penserà lui a me. Mi dice che allora metterò il velo perchè diventerò una donna come sua madre: dignitosa. Ma io non posso pensarci. A che serve ribellarsi e andare in piazza, rischiare la vita e respirare i lacrimogeni se poi io non posso nemmeno andare a ballare. Sarà stupido, ma io voglio poter andare a ballare, voglio solo avere la libertà di andare a ballare senza nascondermi dietro ad un velo. Se non ho nemmeno questa libertà allora… avrà anche il profumo dei gelsomi, ma questa rivolta non è mia e mai lo sarà. Se per noi donne non cambia nulla, nessun cambiamento ci sarà nella società, non cambieranno i nostri mariti e i nostri figli rimarranno sempre uguali ai loro padri e ai loro nonni. Non fate la rivoluzione, non fatela in nostro nome, perchè niente cambierà, soprattutto il nostro destino.

La lunga lezione

In Le Giornate della Memoria, Nuove e vecchie Resistenze, politica on 25 luglio 2011 at 9:51


Non sono nata per essere una grande analista politica, io vivo solo il mio tempo, con tutte le contraddizioni che comporta. Io sento l’aria. Annuso. Percepisco, e non so spiegare quello che sento. Ecco perchè, forse, dovrei lasciare spazio solo a chi ne sa più di me. Ma le mie parole non hanno la presunzione di diventare delle verità assolute. Il mio modo di guardare il mondo serve solo a me stessa e forse trova assonanza solo con quelli che come me vivono di stupori e ancora di entusiasmi.
In questi giorni sono tornata in piazza, forse non per la prima volta, ma almeno con una nuova energia, che nel tempo avevo perduto. Sono tornata dopo l’inizio incerto, ma rabbioso del ’68. Allora la piazza ci apparteneva, sembrava una piazza diffusa, mondiale, e forse lo era. Ma non era tutto, non era di tutti. Basta guardare che già da allora il ’68, vissuto fuori dalle grandi città non era niente, solo uno sbarluccichio della televisione. I ragazzi non erano tutti uguali, se non per una moda che ci accomunava, quello sì, senza guardare in faccia e senza chiedere la localizzazione geografica. Dovevamo imparare fin da allora che la televisione ci avrebbe perduto. Dovevamo capire che il potere che reggeva le fila del mondo, era più forte di noi tutti. In effetti quei ragazzi si trasformarono nelle nuove leve del potere, presero il posto dei loro padri dismessi e allevarono figli senza la vera volontà di lasciarli decidere del loro futuro. Sembra quasi che quella generazione, nata dalla lotta, non abbia abbandonato un unico vezzo: l’idea di essere eterni. Invece il mondo è cambiato, sempre di più intrappolato in quel sistema che ci vuole obbedienti a quelle regole che vorrebbero garantire il progresso economico e il benessere di pochi a scapito di molti.
Sabato ero in piazza. Non una nuova piazza perchè quella numerosissima e coraggiosissima si era mostrata dieci anni fa sulle strade barricate di una Genova assolata. Io ci sono tornata perchè lo consideravo un dovere. Una denuncia che la nostra attenzione non è mai venuta meno, assieme alla nostra memoria. Perchè io sono certa che un mondo senza memoria non ha futuro. Ho percorso le strade insieme ad una moltitudine di persone. Ragazzi che allora non c’erano e adulti che a quel tempo erano ragazzi. Molti di loro che si sono portati appresso quella ferita mai più rimarginata. Quasi tutti portandosi addosso una sensazione di sconfitta e di vaga vergogna. Eppure loro c’erano e sono stati picchiati e vessati. Loro avevano ragione e noi torto e sono stati colpiti al cuore. E noi, gli assenti, abbiamo vissuto una doppia ferita e una doppia vergogna: il non esserci stati e il non aver condiviso tanta ingiustizia e dolore. Certo non è prendendo manganellate che si impara una lezione e mica sempre la lezione impartita genera maggiore conoscenza e coraggio. A volte genera solo paura e rinuncia. Molto spesso ci cambia.
La piazza di Genova 2011, dieci anni dopo, è una piazza cambiata. Sempre di più c’è la consapevolezza della schiavitù che il sistema impone. Lo strapotere del denaro sulla vita di ciascuno. La predominanza di una economia globale esclusiva sullo sviluppo equo e solidale di paesi depressi e depredati. Abbiamo imparato che una piazza non basta a salvarci dalla crisi di un sistema che intende farla pagare a chi meno ha, ma che per numero può fare la differenza. E’ proprio lì, che si scovano nuovi mercati e maggiori sfruttamenti. Ma io, tanto meno sono in grado di analizzare l’economia mondiale. Posso solo dire che oggi mi sento più povera e più depredata, visto che i nostri figli non hanno nemmeno un barlume di futuro. Visto che i miei, nostri, sogni sono stati uccisi in mille piccole guerre, in tante grandi ingiustizie, in maneggi economici impietosi di uomini senza scrupoli, ciechi ed ottusi.
Ho portato, insieme ad altri, in quella manifestazione, il messaggio “Restiamo Umani” in memoria di Vik, ma anche di tutti quelli che sono caduti nel tentativo di rendere questo mondo migliore. E un mondo migliore potrà essere possibile solo se tutti ci crediamo e ci operiamo per renderlo attuabile. Basta il nascondersi dietro a mille giustificazioni e paure che si vestono, per sopravvivere, da principi inderogabili. La lezione dovremmo averla imparata tutti, perchè è da lungo tempo che ci viene impartita: “Anche se noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti…” e ogni volta che chiudiamo gli occhi ed il cuore consentiamo all’egoismo e agli interessi privati di farla da prodroni. Consentiamo di essere depredati della nostra dignità. E’ solo attraverso la partecipazione e la forza di volontà che si può mettere fine alle ingiustizie, alla fame, alla sete e alla cancellazione dei diritti primari di popolazioni intere. E’ solo attraverso la conoscenza che i segreti di questo “mondo” malato ci vengono svelati. Diamo spazio alle idee, diamo spazio ai nostri figli, a tutti i nostri figli, perchè è loro il domani ed è loro il mondo. Diamogli una possibilità. Consentiamogli almeno questo. Un piccolo sogno da trasformare in realtà: Un mondo migliore è possibile.

Il bosco degli uomini-libro

In Cinema, Libri, poesia, Senza Categoria on 25 Maggio 2011 at 22:50

Stasera zappinando di canale in canale mi sono trovata a rivedere con uno stupore tutto nuovo un vecchio film: “Fahrenheit 451” di François Truffaut. Vecchio film del 1966 tratto dal romanzo fantascientifico e distopico di Ray Bradbury. Per chi non conosce la storia si tratta di una società futuribile (o forse no) che per consentire alla gente di essere felice proibisce di leggere i libri che per questo vengono bruciati in grandi falò. I libri insomma rendono la vita triste e vengono eliminati come strumenti di contaminazione. Montag, che fa il pompiere, viene avvicinato alla lettura da una donna che, come molti altri, nasconde i libri nella propria casa per salvarli dallo sterminio. Montag si appassiona alla lettura finché un giorno, tradito dalla moglie, viene costretto a bruciare i suoi libri pur salvandone uno. Proprio per questo libro uccide il suo Comandante e si dà alla fuga. Raggiunge nel suo pellegrinare un bosco, alla fine di una strada ferrata. In questo bosco vivono gli uomini-libro che conservano i libri nella loro memoria. Non importa che il libro di carta vada perduto l’importante è conservarlo nella memoria e tramandarlo ad un altro che si prenderà la cura di salvarlo per il resto della sua vita. Non ricordo Montag che libro avesse salvato, ma mi è venuto subito in mente il libro che vorrei essere e che vorrei salvare. E’ un libro corto che lessi in due ore durante un viaggio in macchina verso il sud. In effetti più che un libro è un monologo, non un romanzo, ma la sceneggiatura di un film. L’autore non è nemmeno uno di quelli che preferisco, anche se il primo libro che lessi di lui “Seta” mi aveva oltremodo toccato. Il libro è “Novecento” di Alessandro Baricco e mi piace l’idea di passeggiare dentro al bosco raccontandomi e ripetendo agli altri la storia di quel bambino dal nome strano che nacque su una nave da crociera e da lì non scese più.

I motivi per crescere

In La leggerezza della gioventù on 6 ottobre 2010 at 9:24

Era vacanza. La tanto attesa vacanza da scuola. Era felice perché la sua pagella era la più bella della classe. L’aveva portata a casa con così tanto orgoglio e non era nemmeno rimasta delusa quando il padre le aveva detto: “Non era che il tuo dovere!”. Certo era il suo dovere, lo sapeva bene, ma gongolava ad esserne uscita così, con una specie di trionfo personale. E poi ne era uscita e questo le importava più di tutto. Quella scuola era stata comunque la sua ossessione. Forse era colpa del suo carattere ribelle, forse solo perché in quella scuola non era facile socializzare. Una scuola privata frequentata solo da bambine perbene. Non che lei fosse permale, solo che non si trovava a suo agio, e come lei poche altre che venivano da famiglie povere. Non aiutava il fatto che fosse così sensibile alle ingiustizie, non a quelle che venivano fatte a lei personalmente, quelle non la spaventavano affatto. Odiava vedere le preferenze e le rivincite sulle persone deboli. Odiava questo modo di farsi belli sulla pelle degli altri, non sopportava quel modo stupido di arruffianarsi il potente. Odiava le regole e le imposizioni, lo avrebbe sempre fatto anche dopo di allora.
Comunque ne era uscita, ora sarebbe andata alla scuola pubblica, finalmente. Non ci sarebbero state più le suore a metterla in castigo nel sottoscala. Che poi non era il buio a darle fastidio, ma l’odore degli stracci umidi che venivano messi lì dalla suora portinaia. Le aveva sempre dato fastidio che si chiamasse Sorella Modesta e che facesse i lavori più umili. Nessuno la considerava eppure era la più simpatica, piazzava dei sonori pizzicotti alle guance delle bambine, ricche o povere che fossero. Insomma come si direbbe ora: per le pari opportunità.
Suo padre quel giorno si era fermato a parlarle. Anche quella era una cosa eccezionale. Era per quello che era rimasta basita. Nella maggior parte dei casi faceva a non vederla. Le parlava, anzi le ordinava sempre attraverso sua madre. Era un padre che diceva sempre: No! Era per quello che lei non si era mai sprecata a chiedere.
Quel giorno invece sembrava intento a spiegarle qualcosa che lei non riusciva a capire, almeno non subito o almeno non nel modo corretto. Lui le spiegava che erano una famiglia povera e questo lei lo sapeva bene. Che lei aveva due fratelli maschi e un altro in arrivo. Che i maschi in quella casa avevano il diritto di studiare perché poi avrebbero avuto una famiglia da mantenere, invece lei, che era femmina, avrebbe trovato un marito che la manteneva. Stava cercando di farle capire che in quella famiglia anche il suo lavoro sarebbe stato necessario. Avrebbe dovuto aiutare sua mamma a crescere i fratellini e magari fare qualche lavoretto per arrotondare le scarse entrate. Questo era il suo destino, questo era il meglio che le si poteva proporre.
Lei non aveva fatto a tempo di realizzare. Dalla bocca le erano scappate quelle poche parole: “Ma… io volevo andare ancora a scuola, volevo fare le medie come tutti gli altri…” lui si era buttato sul letto per il suo solito pisolino e aveva aggiunto: “Che sarà mai! Anche io ho fatto solo fino alla quinta elementare. Poi sono andato a lavorare. E poi cos’è questo “io volevo”? Si vuole quel che si può, e tu non puoi!”
Poi si dice perché ci si porta un cattivo ricordo per tutta la vita. Lei era rimasta muta, annichilita. Si era rintanata dietro la tenda rossa che schermava quel piccolo poggiolo che dava sul giardino dei vicini. Non aveva neanche il coraggio di piangere. Provava un senso di impotenza e di dolore che andava ben oltre le sue possibilità. In fin dei conti aveva solo dieci anni, non sapeva ancora che la legge, almeno su questo, l’avrebbe protetta. Non sapeva che almeno per altri tre anni le sarebbero stati garantiti gli studi.
Certo avrebbe dovuto primariamente occuparsi dei fratellini che alla fine erano diventati tre. Avrebbe dovuto fare sia questo che quello, ma lei non faceva fatica, a scuola era brava anche se non aveva la pace per studiare. Se la sarebbe cavata lo stesso. Ma lei tutto questo non lo sapeva ancora. Stava solo vivendo quel momento che decretava la caduta di tutti i suoi sogni. In quel momento però capiva che della sua vita erano padroni gli altri, che doveva seguire il suo destino, almeno fino a che… ci sarebbe stato un momento che le cose sarebbero cambiate, allora sì che avrebbe potuto decidere lei, finalmente. Sapeva che amava la sua famiglia al punto di rinunciare, almeno provvisoriamente, alla sua vita, ma non era disposta a farlo per sempre, prima o dopo ne sarebbe ancora una volta uscita.
Anche su questo non sapeva che il suo destino sarebbe stato sempre quello di crescere e di sacrificare fino al momento che ne sarebbe “uscita” e avrebbe potuto decidere da sola. Non sapeva che avrebbe fatto della solitudine il suo tentativo di libertà e che la libertà, per lei, sarebbe stata necessaria come l’aria che la teneva in vita. Era disposta a rinunciare ai suoi sogni per i suoi affetti e questo l’avrebbe condizionata per gran parte della vita, ma dentro di lei c’era così tanta vitalità e bisogno di sognare che niente e nessuno l’avrebbe fermata per sempre.

Spiegare il femminismo agli uomini

In Donne, uomini on 19 luglio 2010 at 14:53

Eh sì lo so, non è facile. Qualcuno sostiene che è una questione di DNA, io sostengo invece che è difficile spiegare quello che non si vuol capire, ma è indiscutibilmente complicato superare tutti i millenni di pregiudizi e di falsa informazione.
Un amico, tempo fa, mi ha chiesto a quale testo o linea di femminismo mi rifacessi. Chissà perché mi sono sentita in colpa e davvero imbarazzata nell’affermare che non avevo mai letto niente e che nessun gruppo “anni 70” mi stava ispirando. Anzi no, un libro lo avevo letto e ne avevo fatto oggetto di tesina all’esame di maturità. “Dalla parte delle bambine” di Elena Gianini Belotti che proprio femminista, in senso stretto, non è. Lei come me sosteneva che non esistono alla nascita doti che determinino la “superiorità maschile” e di contraltare la “inferiorità femminile”, ma solo doti umane che vengono sviluppate in modo condizionato e condizionante al ruolo sociale che si vuol consegnare a quel particolare genere.
La cosa che mi colpì di più erano i diversi tempi di allattamento al seno, se una madre allatta un maschio lo tiene al seno molto di più che una femmina. Ovviamente la prima cosa che viene da pensare, dopo questa scoperta, è che o le femmine sono meno voraci, oppure lo sono di più e ci mettono meno tempo nella poppata. Non è così, purtroppo, la causa è semplicemente l’insieme dei pregiudizi sessuali di un sesso (quello della madre) con lo stesso sesso (quello della figlia) mentre tutto diventa più “naturale” se a succhiare il seno è un maschietto. Sembra che alle madri piaccia di più. Suppongo che sarebbe l’inverso se ad allattare fosse il padre, ma il caso purtroppo vuole che l’allattamento al seno sia di sola pertinenza femminile.
Fin dalla nascita si instaura un regime educativo che sfavorisce le femmine e favorisce i maschi. Sia che si tratti di opportunità educative, sia che si tratti di opportunità di vita, le donne devono guadagnarsi tutto con un maggior dispendio di energie. Sarà che le femmine sono più stupide di “natura”? Statisticamente non sono certamente meno dotate di intelligenza, intuizione, arguzia, volontà e coraggio, anzi, a dirla tutta e passando alla pratica, mio figlio, durante il suo percorso scolastico, ha visto solo femmine a contendersi il primo posto nella classifica della preparazione e nella capacità di esprimersi. Non sto nemmeno a dire come le donne nel lavoro siano più capaci di adattamento e di mobilità degli uomini. Non solo si adattano meglio ad ogni tipo di attività, ma hanno sicuramente più “amor proprio” per il loro lavoro che contende il primato al maschio più ambizioso.
Una mia amica giovane, dopo aver letto il libro della Belotti mi ha confidato: “Lo sai, leggere questo libro mi ha fatto pensare che l’unico modo che abbiamo per rivalerci è far nascere solo figli maschi”. Il che fa pensare che non ha torto, salvo poi inorridire: ma tutti questi figlioletti maschi, nel momento che rimangono senza madri, chi li salverà? E’ indiscutibile che chi, alla fine, perpetua l’errore iniziale, quello che inserisce la femmina in un certo ruolo ed il maschio in un altro ben delimitato, è sempre quella “benedetta donna della loro madre”.
Eppure io vizio mio figlio maschio come vizierei la mia figlia femmina. Continuo a reagire alla semplice frase: “Dai usciamo che ti porto al cinema” con la frase acidetta “E che è non c’ho due gambe pure io?” Certamente che mi stupisco sempre della poca autonomia che hanno gli uomini messi nella situazione di pensare da soli a se stessi, mentre invece mi sento orgogliosa delle capacità decisionali delle donne. Mi sconvolgono i pregiudizi dei maschi contro le donne veramente indipendenti e libere, per dire non quelle che “la danno” ogni qualvolta garba loro per avere in cambio delle migliori opportunità, ma solo quelle che fra le tante cose amano liberamente come ogni uomo fa di abitudine, anche confortato dal mondo intero. Che differenza passa tra un “furbacchione” e una “ragazza leggera”? E ancora di più tra un uomo dalla forte carica erotica e una donna veramente “porca”?
Queste sfumature mi sfuggono. Ma si sa io sono femminista e questo la dice lunga sul mio modo di intendere i rapporti tra uomini e donne. Eppure io penso che gli uomini siano una parte essenziale del mio mondo, che abbiano lo stesso diritto delle donne di esistere e che vengano educati allo stesso modo dell’altra parte del cielo per far sì che sviluppino le stesse qualità che sembrano di unico appannaggio della femminilità. Magari col tempo invece di ridurre le donne a partorire figli maschi, geneticamente modificati, far sì che pure gli uomini vivano direttamente la loro paternità, magari affidando loro in età prepuberale esigenti bambole che chiamano papà in continuazione e che chiedono di essere cambiate perché dopo la poppata si sono bagnate il pannolino. Ho detto bamboline mica creature di gomma piene di orefizi senza fine, perché già intravvedevo maliziosità negli occhi di tutti voi maschietti e tenevo a precisare che se aspettate da me un trattamento che vi sia più favorevole, mi sa che dovrete aspettare ancora un pezzo. 🙂

30) Cristo si è fermato a Eboli

In Un libro al giorno on 7 luglio 2010 at 12:00

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria in quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte. – Noi non siamo cristaini, – essi dicono – ……

Soluzione
Titolo: CRISTO SI E’ FERMATO A EBOLI
Autore : CARLO LEVI
Tema: Levi lasciato Grassano, prima tappa del suo confino, racconta di essere giunto a Gagliano in un pomeriggio di agosto accompagnato da “due rappresentanti dello Stato, dalle bande rosse ai pantaloni e dalle facce inespressive” provando un grande dispiacere per aver dovuto dire addio a quelle terre.
Arrivato a Gagliano egli viene “scaricato e consegnato al segretario comunale” e, dopo essere stato presentato al podestà Magalone e al brigadiere, rimane solo in mezzo alla strada. Per Levi, il primo impatto è molto brusco: una prima occhiata lo convince che i tre anni di confino che avrebbe dovuto trascorrere in quel luogo sarebbero stati molto lunghi e oziosi e l’immagine del paese, così chiuso e sperduto, suggeriscono subito alla sua mente l’idea della morte.
Dopo aver osservato il paese egli si avvia verso quello che sarà il suo primo alloggio indirizzato dal segretario la cui cognata, rimasta vedova, aveva una camera che affittava ai rari viandanti di passaggio e che si trovava a pochi passi dal municipio. Dalla vedova verrà in seguito a conoscenza di molte cose riguardo al luogo e alla gente che abita il paese.
Durante la sua prima passeggiata conosce i due medici del paese, Gibilisco e Milillo, che, pur esercitando quella professione, non ne sono validi rappresentanti. Non volendo mettersi in competizione con i due “medicaciucci”, come venivano definiti in paese Milillo e Gibilisco, Levi si sentirà spesso angosciato ogni qualvolta gli verrà richiesto un parere medico perché sente che l’ingenua fiducia di quei contadini che si affidano a lui “chiedeva un ricambio” ed egli, pur potendo contare su una sufficiente preparazione di studi, non aveva la pratica e la sua mentalità era molto lontana da quella scientifica “fatta di freddezza e di distacco”.
Fra le persone che conosce in quei giorni ci sono don Trajella, il parroco del paese ormai rassegnato agli atteggiamenti miscredenti e superstiziosi dei contadini, e donna Caterina Magalone, sorella del podestà.
A spezzare la monotonia di quei lunghi giorni sarà l’arrivo della sorella Luisa che gli porta alcuni medicinali e strumenti per poter curare i contadini del luogo incoraggiandolo e consigliandolo.
Nella ricerca della solitudine, l’unico luogo che Carlo Levi trova è il cimitero, posizionato poco fuori dal paese. Qui egli suole sdraiarsi sul fondo di una fossa per contemplare il cielo e lì si addormenta con il cane Barone ai suoi piedi. Il cimitero è anche l’unico posto dove il paesaggio rompe la sua monotonia. È qui perciò che Levi prende l’abitudine di dipingere, spesso sorvegliato da un carabiniere mandato dal troppo prudente podestà.
Dopo aver soggiornato per venti giorni a casa della vedova, egli si trasferisce in quella che era stata la casa di don Rocco Macioppi, il precedente parroco di Gagliano; in questo luogo Levi si trova a proprio agio, soprattutto grazie al fatto che la casa è situata nella parte esterna del paese, lontano dagli sguardi inquisitori del podestà. Si presenta il problema di trovare una donna per fare le pulizie, prendere l’acqua alla fontana e preparare da mangiare.
«Il problema era più difficile di quanto non credessi: e non perché mancassero donne a Gagliano, che anzi, a decine si sarebbero contese quel lavoro e quel guadagno. Ma io vivevo solo… e nessuna donna poteva perciò entrare, da sola, in casa mia. Lo impediva il costume, antichissimo e assoluto, che è fondamento del rapporto fra i sessi».
Donna Caterina gli risolve il problema trovandogli come domestica, Giulia, una delle tante “streghe” di Gagliano, ovvero una di quelle donne che avevano avuto più figli da uomini diversi e che praticavano delle specie di “riti magici“.
Dopo tre mesi di permanenza a Gagliano giunge da Matera il permesso di poter trascorrere alcuni giorni a Grassano, la sua precedente residenza, per sistemare alcuni effetti personali. Qui Levi torna indietro con la mente e con i ricordi, rincontra i vecchi amici ed assiste ad uno spettacolo di attori girovaghi dopo aver ottenuto il permesso di uscire alla sera dal dottor Zagarella, podestà di Grassano. Ma “i pochi giorni di Grassano” passano in fretta ed egli deve ripartire per ritornare nella solitudine Gaglianese.
«Una mattina presto, con un tempo grigio e incerto, l’automobile mi aspettava davanti alla porta. Salutato rumorosamente da Prisco e dai suoi figli e da Antonino e Riccardo, dissi addio a quel paese, dove non sono tornato più».
Ormai l’inverno è alle porte, le giornate si accorciano ed il clima peggiora. Con l’inverno giunge anche Natale e con questo un fatto increscioso: il parroco, don Trajella, pronuncia la messa natalizia ubriaco, o fingendo di essere tale, simulando inoltre la perdita della predica ed il ritrovamento “miracoloso” di una lettera spedita da parte di un contadino partito volontario per la guerra in Abissinia, contenente i saluti per tutto il paese. L’evento non suscita l’approvazione del podestà Magalone, che fa successivamente in modo di cacciare il buon parroco.
Un altro evento che suscita molto interesse nel paese è l’arrivo del sanaporcelle, erede dell’antica tradizione familiare di togliere le ovaie alle scrofe per farle ingrassare bene e di più.
Arriva la fine dell’anno
«Così finì, in un momento indeterminabile, l’anno 1935, quest’anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi nel loro indifferente corso disumano. Cominciò con un segno funesto, una eclisse di sole».
Verso aprile riceve un telegramma che gli annuncia la morte di un parente e la questura lo autorizza a recarsi, ben scortato, per pochi giorni a Torino. Egli vede, in questa occasione, la città con occhi nuovi: guarda con distacco amici e parenti, rendendosi conto che la sua esperienza meridionale lo aveva cambiato profondamente sia nei modi di fare sia interiormente.
Al suo ritorno in Lucania lo aspettano alcune novità, tra le quali la scomparsa di Giulia, la sua domestica, a causa della gelosia dell’attuale compagno e l’arrivo del sostituto di don Trajella, allontanato a causa degli avvenimenti natalizi.
Qualche tempo dopo, in mezzo all’euforia fascista per la conquista dell’Etiopia ed al dispiacere dei contadini, Levi riceve la liberazione dal confino e, con la descrizione del suo viaggio in treno, termina il romanzo.
«Ma già il treno mi portava lontano, attraverso le campagne matematiche di Romagna, verso i vigneti del Piemonte, e quel futuro misterioso di esili, di guerre e di morti, che allora mi appariva appena, come una nuvola incerta nel cielo sterminato».
(da wikipedia)

Altre considerazioni su: sessualità e finzione

In Donne, Gruppo di scrittura, uomini on 2 luglio 2010 at 9:11

Ecco il contributo di Mario alla discussione sulla “finzione e  sessualità”.

Alcune prime frettolose considerazioni, anche se riterrei più opportuno che gli interventi di Bruno diventassero direttamente un post senza prima essere commento. Naturalmente queste sono redatte prima di qualsiasi altro contributo cioè subito dopo la lettura del post di Bruno. E’ questo un limite del “dialogo” in rete: la sovrapposizione delle “tesi”. Aggiungo solo che solitamente non mi fermo troppo a restringere il mio pensiero ad un condizionamento troppo personale. Guardo e ascolto e non mi limito ai miei limiti ed ai miei vizi. Se dovessi giudicare la mia situazione direi che “sono felice”. Per quanto concerne la mia compagna sta a lei testimoniare. Farei un sopruso se parlassi per lei.
Finalmente, grazie a Bruno, si è cercato di limitare l’ambito di discussione a “la finzione” ovvero al detto e no all’interno dei rapporti di coppia (e parlo di coppia e non di uomo/donna non a caso). Certamente la “letteratura” è un ambito nel quale si può fotografare la realtà. Se non possiamo avere una fotografia del reale lo possiamo almeno simulare, possiamo avere un idea realistica. Quella vera, la realtà, credo non esista. Così comincio a cercare chiarezza su alcune domande poste, giustamente, da Ross.
Ma la letteratura ha le sue regole. E’ per quello che alla fine se il letterato viene smascherato perché cerca di fare il lavoro del saggista/ricercatore è costretto a nascondersi dietro il paravento: “è solo letteratura”. Ogni ambito/ambiente ha le sue regole, di questo (cara Ross) non puoi non tenerne conto. Ricordo che il medium è il massaggio (ma anche, in qualche modo, il messaggio). In un saggio o in un convegno si annuncia e affronta un problema, diventa una cosa in qualche modo “estraneata”; sociale. Ma soprattutto per certi di una certa generazione anche il privato è politico. In letteratura lo si lega ad una singola vicenda, ad un fatto personale, ma estraniato dal contesto di una vicenda di un altro, nel mondo “fatato” della fantasia. Quale sia l’ispirazione che ne detta il contenuto. In una discussione da bar tutti (e per tutti intendo uomini e donne ma soprattutto i maschietti) prendono le distanze per liberarsi da coinvolgimenti e contaminazione. Per questo i i protagonisti del tuo post nella realtà avrebbero spiegato di essere tutti dei “Siffredi”.
In verità questo conta poco in quanto l’interesse è affrontare il problema e i suoi snodi. Ci potremmo limitare ad immaginare cosa maschi possano dire come affermazioni di principio anche se poi non sono, nella realtà, conseguenti alle stesse. Chi mai è perfettamente conseguente alle affermazioni che fa? Ci esentiamo spesso dai nostri stessi propositi (le regole valgono per gli altri); ammettiamolo. Inoltre si suppone che parte degli uomini la cui donna si trova a fingere non ne siano consapevoli e coscienti. Direi anzi che si dovrebbe lavorare primariamente al fine di raggiungere per approssimazione un linguaggio comune. Nelle pieghe di un lemma si nascondono sempre tante sfumature che conducono ad interpretazioni diverse. Dovrebbe cioè cercare una comunicazione il più possibile neutrale e “veritiera”. Liberata, per quanto possibile, dalle interpretazioni “ideologiche”.
Credo che vicino alla radice del problema ci sia la negazione (storica) di una sessualità per la donna. La vergogna del piacere. E purtroppo la causa non è solo morale, visto che questo è riscontrabile in società diverse e in tempi diversi. Ricordiamo che ci sono “costumi” per cui viene limitato o negato, come atto sociale e/o religioso, il piacere alla donna. Sembra, pare, è quasi certa, la presenza di una considerevole percentuale di donne che non vengono a conoscenza del piacere cioè dell’orgasmo. Allora a monte del discorso dovrebbe esserci una “letteratura” che si occupa de IL PIACERE. Dall’altro verso è pur vero che si è cercato di configurare la donna come l’oggetto del desiderio. Questo pare significare che quel desiderio, cioè il piacere è maschio; eppure…
A questo punto mi sembrano due facce dello stesso problema che la donna neghi di conoscere/frequentare il piacere e che l’uomo neghi di avere problemi a condurla al piacere. Per quanto sopra quasi sempre l’uomo ne è esentato perché “il proprio piacere è il piacere della coppia”. Pare una battuta solo cinematografica che chieda alla partner “ma ti è piaciuto”? A parte il fatto che la risposta dovrebbe trovarsi evidente, vi è sotteso una insicurezza più che latente. Ma anche questo è altro. Resta il fatto che più spesso di quanto si pensi (e per varie problematiche) sono presenti nelle coppie difficoltà nel condursi per mano al piacere.
Spesso ho sentito donne parlare del proprio piacere (non ne parlano con facilità), anche se legittimo, come se stessero cospirando, se quel dialogo appartenesse ad una sfera eversiva, se confidassero un grande segreto che ha valenza di scardinare “l’ordinamento”. Ma anche nel loro caso la maggior parte delle volte si cercava, in un qualche modo, di esentare il partner. Certo alcune considerazioni ci porterebbero ad evadere. Ci costringerebbero ad intervenire sul tema dell’uomo e del suo doppio. Della maschera. Di quello che è e di quello che appare. C’è ed è evidente quella “zona di silenzio”. Un gioco di ruoli. Una rappresentazione di parte.
Si potrà obiettare che nelle vicende di coppia non c’è solo il piacere. Certo non amo il brodo, se poi è freddo… Visto che ogni uomo sostiene di governarlo. Di averne diritto. Fortuna vuole che sembra che lentamente ci stiamo avviando al riconoscimento dei diritti delle donne. Persino al diritto di decidere sul proprio piacere anche all’interno di una coppia; almeno a livello normativo. Solo che le norme non volgono quanto le consuetudini. Solo che spesso all’interno vi è una cavia, quando non una vittima. E che la donna ha imparato magistralmente l’interpretazione del ruolo di vittima. Chi non ha conosciuto il piacere difficilmente dirà che almeno si aspettava qualcosa di più, almeno di diverso. Chi ne viene frustrata raramente lo ammetterà al partner; spesso nemmeno con gli altri.
E’ un classico delle giustificazioni quel “E’ la prima volta; non mi era mai successo”. E la successiva risposta “non ti preoccupare”. Forse sarebbe più opportuno un invito a preoccuparsi. Certo vorrei sentire Ross perché per un fatto “ormonale”, ovvero di genere, mi sono sempre trovato dall’altra parte del problema. Vorrei sentire lei e/o la voce di altre amiche che so che ci leggono. Ammetto, anche se non amo parlare di me, ma questo non è un atteggiamento dettato dal pudore, di aver rifiutato anche una comoda finzione. Ma dovrei parlare di una donna il cui ruolo era inteso solo come finalizzato a figliare. Qui entriamo nel privato e forse nella singolarità. Lei non può ribattere. Eppure anche questo non lo credo un caso limite né abbastanza isolato. E’ la donna stessa che si nega al piacere. In questo caso temo che la finzione sia con sé stessa e nel raccontarsi che ne può fare senza, fino a convincersene. Qui non siamo più in letteratura, siamo senza ombra di dubbio nella psicoanalisi.
Ricordo che io vorrei occuparmi solo di scrivere prosa (magari prevalentemente, perché certe passioni si son fatte più tiepide). E’ giusto che siano altri, più giovani, a cambiare il mondo, io ci ho provato (nel piccolo mio) e non ci sono riuscito. Il problema, ed è problema di questi giorni, deriva anche da quello che ci raccontiamo, se siamo persino disposti a negare una palese evidenza. Il silenzio è quel vuoto nel quale noi siamo migliori. Io sono instancabile (come fosse solo una questione di tempi). La natura è stata benigna con me; chi lo nega ha evidenti problemi di vista. Si può ricorrere al silenzio nel quale nascondersi ma allo stesso modo ci si può nascondere in un mare di parole.

La Zona “del silenzio e della solitudine”

In Donne, uomini on 30 giugno 2010 at 7:42

Non sono brava nei sunti, ma l’argomento lo avevo lanciato qualche tempo fa con il post “Fingere” dove asserivo a mezzo raccontino che le donne si confessano tra di loro, parlando anche liberamente della loro sessualità. Non solo, molte asseriscono (e i dati li avevo ricavati da una inchiesta web) che le donne molto spesso fingono il piacere per non deludere e creare problemi al compagno.
La discussione sull’argomento non era stata esaustiva e proprio per questo avevo proposto un altro raccontino fantastico dove immaginavo degli uomini che si ponevano la domanda: “Ma le donne fingono?” e se sì “Perchè?”. Un altro post “l’altra metà del cielo si confida” apriva un nuovo scenario. “Ma gli uomini si pongono queste domande?” e se sì, “lo fanno parlando fra di loro?” Ancora una volta la risposta non era chiara. Gli uomini tra di loro si dipingono come “amatori indefessi” e il problema è solo degli “altri”.
La provocazione la raccoglie Bruno del blog “Ponterosso con il commento post “il piacere e la finzione, una lettura sociale al maschile“.
Oggi, come promesso, Bruno invia un altro approfondimento sulla funzione della comunicazione relativamente alla sessualità e all’isolamento fra generi diversi.
Riporto qui di seguito l’intervento.

“Dobbiamo ragionare proprio su questa ovvietà, cioè sull’esistenza di un non detto che ci parla proprio dei motivi per cui la finzione ha ragione di esistere”.
“Tutto questo a me fa pensare che esista una specie di zona “del silenzio e della solitudine” all’interno dei rapporti uomo/donna , donna/uomo, in cui ognuna delle parti si accontenta di parlare… con sé stessa, oppure in cui la percezione oscura di un qualcosa che non sappiamo spiegarci induce a mantenere ognuno nella convinzione che il problema sia …dell’altro”.

Cara Ross , caro Mario,
rileggendo quanto avevo scritto mi sono soffermato su queste due frasi, che mi permettono di ripartire con il ragionamento. Alludevo qui all’esistenza di un “non detto” e a “la percezione oscura di un qualcosa che non sappiamo spiegarci” per riferirmi alla presenza nelle nostre vite di quel pianeta chiamato inconscio, che opera ed agisce sui nostri comportamenti quotidiani e che continuamente ingaggia il confronto e lo scambio con la nostra parte razionale, cosciente. Volevo con questo cercare di attirare l’attenzione di chi legge sul fatto che, forse, proprio in quello che consideriamo l’aspetto più intimo del nostro relazionarci al mondo (il rapporto d’amore), si manifesta in modo più pregnante e decisivo (per le nostre scelte) quella parte “ereditata” di cui il nostro cervello e le nostre emozioni sono pervase, ma di cui non riusciamo a darci ragione, e che però tendiamo spesso a “spiegare” con motivazioni puramente ideologiche, cioè non pertinenti ai fatti specifici, e che hanno sovente funzione soltanto rassicurante.
Non voglio qui appesantire il discorso con citazioni, ma è per me pacifico che su questo tema ci sono (in psicanalisi e psichiatria, oltre che nella letteratura) pagine e pagine di tentativi di interpretazione, ognuna con più o meno buone ragioni. Preferisco invece discorrere come se fossimo all’anno zero in materia, e provare a trovare le parole più “elementari” per dirlo. La domanda che mi sono posto , entrando in questo dibattito, riguarda i motivi per cui due “sessantottini” maturi abbiano pensato (ognuno seguendo strade diverse) di cimentarsi con temi come la finzione e la gelosia ritenendoli significativi per il presente che stiamo vivendo, e quindi possibili oggetti di incontro e comunicazione con altri nel mare infido della rete… La prima risposta (banale) che mi sono dato è che questi temi fanno parte del loro vissuto. La seconda è che, sicuramente, il tema è trasversale nella vita di tante generazioni di “giovani” che il ‘68 l’hanno solo conosciuto dai libri o dalla musica, e di conseguenza sembra naturale pensare che debba poter coinvolgere. Ed anche che l’uso del racconto potrebbe facilitare questa possibilità di incontro.
Ma a quale scopo ?
Forse la domanda potrebbe essere: perché, ed in quale senso, questi temi sono tanto “attuali” , proprio nell’ottica di quanto gli anni Sessanta avevano fatto intravvedere come possibilità di “liberazione” dal peso della tradizione? E perché riguardano molto da vicino i comportamenti sociali di ognuno di noi, ed influenzano gli stereotipi attuali nella relazione tra i sessi, nel giudizio sociale diffuso sulle “donne” e sugli “uomini”? E soprattutto: come vanno letti e presentati nel contesto sociale attuale per renderli significativi agli occhi dei più ?
Una breve digressione prima di entrare in materia su queste domande.
Una decina di anni fa ero rimasto colpito da una dichiarazione di Gustave Flaubert “qui” il quale, di fronte allo scalpore pubblico suscitato dal suo Madame Bovary, ed al processo che ne era seguito, ad un certo punto aveva esclamato “mais Madame Bovary c’est moi!”, quasi a voler allontanare il sospetto che egli avesse voluto descrivere un fenomeno sociale diffuso, un ritratto della piccola borghesia che ne metteva in luce miserie e preconcetti. Flaubert tuttavia centrava (forse per la prima volta in modo così esplicito) una descrizione letteraria sui desideri “segreti” di una donna che, reclusa in un matrimonio che le nega il valore dei propri desideri erotici e sentimentali, cerca una illusoria via di uscita negli “amanti” che idealizza, finendone travolta.
Quella frase però mi aveva incuriosito, tanto da divenire il motivo che mi ha portato, (dopo aver per tanto tempo letto soltanto quanto si diceva su questo romanzo), a leggermi per intero quest’opera, scoprendovi altro. Dopo aver letto il libro, quella frase l’ho interpretata poi come una “confessione”: Flaubert parlava realmente di sé stesso descrivendo la signora Bovary. Ma come? Può un uomo entrare nella psicologia di una donna e descriverne minuziosamente i pensieri reconditi senza travisarne la natura, facendo riferimento alle proprie esperienze? È questa la grande obiezione del femminismo “radicale” che coglie un aspetto importante, ma a mio avviso non decisivo, del problema, nel contempo occultandone un altro. E cioè che la “differenza” non è solo di natura biologica ma culturale (sociale in senso lato), anche se si costruisce man mano sopra una differenza che riguarda il biologico, oltre che su una diversa sensibilità all’uso dei linguaggi (verbali e non) nella comunicazione interpersonale, anch’essa però ereditata dalla storia dentro le società patriarcali. Ma non è questo il punto che qui interessa (su quella frase del resto ci sono in rete mille interpretazioni diverse possibili).
Voglio invece portare l’attenzione sul fatto che Madame Bovary è stato forse il romanzo “sociale” che più ha fatto discutere la società della seconda metà dell’Ottocento e oltre, proprio perché metteva al centro la storia di una donna e dei suoi desideri di trasgressione delle regole, entro il contesto reale della società borghese dell’Ottocento, inserita in quella “piccola borghesia” che sarà poi la base di massa del nazionalismo, che ad inizio ‘900 sarà condotta in massa al massacro del Iª guerra mondiale, in nome dei valori Dio, patria, famiglia (così come in altre società europee cosiddette “cristiane”).
Quindi non una descrizione delle “condizioni della donna in generale”, ma al contrario quella di una “donna calata in un contesto relazionale concreto di una determinata società, le cui scelte “al femminile” non potevano che essere condizionate dai valori di quella società”.
Perché ho voluto fare questa citazione su quella prima opera di Flaubert (scritta tra il 1855 ed il 1857)? Non tanto per il contenuto in sé della storia, quanto piuttosto per evidenziarne il metodo descrittivo utilizzato dall’autore. E di questo preferirei parlare nel mio prossimo intervento (il presente essendo già troppo lungo…) A questa motivazione vorrei però aggiungere anche un altro fatto cui tengo molto. Alla fine degli anni ‘50 frequentavo il Magistero a Torino ed un professore (modesto quanto capace) che insegnava storia della pedagogia ci parlava di una cosa che allora appariva lontana dai miei orizzonti, ma che poi mi è rimasta: la grande letteratura europea come fonte di conoscenza, la capacità di un grande romanziere di dire e mostrare cose che nessuna “scienza esatta” è in grado di esprimere. Questa corrente di pensiero era stata sviluppata in quegli anni da Enzo Paci, il filosofo che attraverso la sua rivista Aut Aut ed i continui colloqui con i suoi allievi all’università di Milano aveva valorizzato proprio la letteratura come strumento di approfondimento per la conoscenza tout court, e questo nell’ambito di una personale rilettura della fenomenologia e del marxismo. E siccome sono arrivato qui, al punto più critico di questo mio intervento, qui mi fermo aspettando di poter leggere le vostre prime considerazioni.
Un caro saluto.
Bruno